Andrés Manuel López Obrador durante un evento di campagna elettorale a Zitácuaro, nello stato federale del Michoacán, lo scorso maggio (foto LaPresse)

Ma chi è questo Amlo

Eugenio Cau

Storia e resurrezioni dell’ultimo populista dell’America latina, che da oggi vuole dominare il Messico

Il momento più importante della vita politica di Amlo, Andrés Manuel López Obrador, il candidato che quasi sicuramente vincerà le elezioni di domenica in Messico con un vantaggio abissale su tutti i suoi avversari, è stato il 20 novembre del 2006, più di dieci anni fa. Quel giorno, nel gigantesco Zócalo di Città del Messico, una delle piazze più grandi del mondo, decine di migliaia di persone acclamarono Amlo come “presidente legittimo” del paese. Lui, con i capelli bianchi scompigliati dal vento e la fascia tricolore sul completo blu, promise di difendere il popolo e la Costituzione. La folla, immensa, esplose di entusiasmo. C’era un solo problema. A pochi metri di distanza, il Palazzo nazionale, costruzione coloniale sede dell’ufficio del presidente i cui balconi affacciano sul Zócalo, aveva già un inquilino.

 

Andrés Manuel López Obrador, per tutti Amlo, fisico da campesino dello stato meridionale di Tabasco, dal quale proviene, e intelletto politico urbano e raffinato, è la figura al tempo stesso più conosciuta ed enigmatica della breve storia democratica messicana. Amlo, che ha cominciato a fare politica nel 1976, precede la democrazia in Messico, che è nata soltanto nel 2000. Da almeno trent’anni domina le cronache da protagonista, ha scritto sedici (sedici!) libri, se vai in giro per qualunque angolo del Messico tutti lo conoscono e hanno un’opinione su di lui – e non ce n’è una uguale all’altra. Amlo è stato definito un populista e un riformatore, democratico e autoritario, speranza e rovina del Messico, socialista moderato e pericoloso chávista, messianico e diabolico.

 

Amlo ha cominciato la sua carriera politica nel Pri, l’ossimorico Partito della rivoluzione istituzionale che per decenni ha tenuto il paese sotto quella che Mario Vargas Llosa definì “la dittatura perfetta”, poi ha militato nel Prd, Partito della rivoluzione democratica, spinoff di sinistra del Pri. Nel 2000 è stato eletto sindaco di Città del Messico, e quello è stato il suo più grande e unico successo amministrativo. In sei anni, il tasso di criminalità scese e l’economia fece buoni numeri. Amlo promosse politiche di sostegno alle fasce sociali più deboli e un piano di espansione infrastrutturale notevole. I suoi avversari gli diedero di populista e dissero che stava facendo crescita a debito, tentarono l’impeachment, ma il suo tasso di popolarità sfiorò il 90 per cento tra gli abitanti della capitale, lui si guadagnò fama di difensore dei più deboli, eradicatore di povertà, sindaco onesto e incorruttibile. Forte di questi numeri Amlo si candidò alla presidenza nel 2006 contro Felipe Calderón. Dopo una campagna durissima, in cui Calderón disse che Amlo avrebbe trasformato il Messico in una dittatura chávista e Amlo rispose dicendo che Calderón era corrotto e membro della partitocrazia (ricorda qualcosa?), Amlo perse per appena lo 0,5 per cento dei voti, in mezzo a diffuse denunce di brogli (smentite dagli osservatori internazionali). Fu a quel punto che, insieme con centinaia di migliaia di sostenitori, decise di occupare Città del Messico.

 

Per mesi, nell’autunno del 2006, Amlo e i suoi piantarono le tende su Paseo de la Reforma, gli Champs-Élysées messicani, pretendendo le dimissioni del corrotto Calderón. A novembre, con la cerimonia che abbiamo descritto, si fece nominare “presidente legittimo” al posto del suo avversario. La protesta fu inizialmente bene accolta dai messicani. Da sempre sospettosi del potere, memori di una dittatura che in fondo era caduta soltanto sei anni prima, tutti erano convinti che ci fossero stati dei brogli. Ma più il tempo passava, più le strade di Città del Messico si congestionavano e più gli accampamenti di Amlo diventavano un fastidio. Centinaia di migliaia di persone diventarono decine di migliaia, e infine poche tende sparute. Amlo passò da essere considerato il difensore della democrazia a vecchio blaterante che non sapeva accettare la sconfitta. I messicani sospettano chi detiene il potere, ma disprezzano chi non sa conquistarlo. Anche i politologi e i giornalisti cominciarono a criticarlo: con la sua prova di forza stava facendo traballare le fondamenta fragili della democrazia, si stava dimostrando il populista che era.

  

Il culmine della popolarità di Amlo fu anche la sua fine. Dopo mesi di blocco di Città del Messico fu costretto a tornare a casa senza aver ottenuto nulla. Per tutto il mandato di Calderón (2006-2012) continuò a dimenarsi e a denunciare “la mafia al potere”, senza risultati. Si candidò alle elezioni del 2012, ma fu spazzato via da Enrique Peña Nieto, quarantenne liberale che prometteva riforme e crescita. Amlo sembrava un vecchio arnese, tutti lo davano per spacciato, finito.

 

Da lunedì, invece, Amlo diventerà il dominatore assoluto della politica del Messico. A meno di cataclismi, stravincerà le elezioni di domenica, da molti definite le più importanti della storia del paese. Gli ultimi sondaggi fatti prima del silenzio elettorale da Consulta Mitofsky, il centro statistico più famoso del paese, lo danno al 48,9 per cento dei consensi (altri istituti lo danno oltre il 50 per cento), più di 20 punti sopra Ricardo Anaya, un giovane tecnocrate tanto preparato quanto privo di carisma (25,8 per cento) e José Antonio Meade, ex ministro del governo uscente (21 per cento). Morena, il Movimento di rigenerazione nazionale da lui fondato, dovrebbe inoltre ottenere il 40 per cento dei seggi nel Parlamento nazionale, più di tutti gli altri partiti. Insomma, Amlo si prepara a prendersi tutto. Cosa diamine è successo?

 

Le condizioni della resurrezione politica di Andrés Manuel López Obrador non depongono a favore di chi lo ritiene un moderato riformatore. Al contrario, il Messico di oggi è il brodo di coltura perfetto del populismo. Gli ultimi due governi che si sono succeduti a Città del Messico, quello di Calderón e quello di Peña Nieto, hanno fallito in molti modi. Il primo ha dichiarato una guerra al narcotraffico che ha provocato centinaia di migliaia di vittime, il secondo ha promesso ai messicani la fine della stagnazione economica e della corruzione per poi lasciare il paese impantanato nell’una e nell’altra. Al senso di disperazione generato dai fallimenti politici interni si è aggiunto un sentimento nazionalista crescente provocato dalle ingiurie continue del presidente statunitense Donald Trump contro il Messico e i suoi abitanti.

 

Arrabbiati e sfiduciati, i messicani hanno cominciato a odiare la politica tradizionale, disprezzare i vecchi partiti, accusare di ogni male la corruzione e la “mafia al potere”. Si sono guardati intorno, e hanno scoperto che il vecchio Andrés Manuel non aveva mai smesso, dal 2006, di abbaiare rabbioso proprio contro i partiti e i politici e la corruzione. Questa volta, i messicani condividevano la sua rabbia. Amlo, abilissimo, li ha saputi riconquistare. Il personaggio emana un carisma eccezionale, si trova a suo agio nei villaggi di campesinos senza strade asfaltate come tra i grattacieli di vetro di Città del Messico, e i messicani ci hanno messo un attimo a riannodare la venerazione messianica che avevano per lui e a ricominciare a baciare l’automobile che usa per sfilare per le strade.

 

Amlo è in politica da quarant’anni ma, se si esclude la sua breve permanenza come sindaco di Città del Messico, nessuno conosce davvero il suo stile di governo. Nei lunghi anni trascorsi a meditare la sua riscossa, ha fatto in modo che diventasse ancora più difficile qualificarlo ideologicamente. Si guardi la sua coalizione di governo. Morena, il suo movimento, è alleato da un lato con il Partito del lavoro, una formazione veteromarxista, e dall’altro con Incontro sociale, un partito di fondamentalisti cattolici contrari all’aborto e al matrimonio lgbt – un particolare, quest’ultimo, che gli hipster della capitale entusiasti di Amlo tendono a trascurare.

 

Jon Lee Anderson, reporter del New Yorker, ha notato anche come Amlo tenda a variare la propria retorica a seconda del pubblico: davanti alle comunità rurali del sud del paese promette vendetta contro i padroni, ma è affabile e rassicurante con le platee borghesi e imprenditoriali del più ricco nord. I suoi detrattori vedono in lui un nuovo Chávez, chi lo sostiene spera che diventerà come Pepe Mujica, l’austero ex presidente dell’Uruguay.

 

Il populismo, spesso considerato una malattia delle democrazie mature, sta per arrivare nella giovanissima democrazia messicana (è appena maggiorenne). Dopo il fallimento della destra securitaria e della sinistra riformista, i messicani si sono già fatti trascinare dalla delusione.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.