I resti dell'auto di Falcone e della scorta dopo l'attentato di Capaci (foto LaPresse)

Il “metodo Falcone” e l'autoevidenza della logica mafiosa della strage di Capaci

Massimo Bordin

Gli stralci della sentenza sul quarto processo istruito sulla strage di via D’Amelio mostrano finalmente il tentativo di approssimarsi il più possibile alla verità storica

Il problema vero, in fondo, è ben riassunto in una espressione inserita fra quasi duemila pagine di testo: “il metodo Falcone” . Gli stralci della sentenza sul quarto processo istruito sulla strage di via D’Amelio, che già ieri sono uscite sui giornali, mostrano finalmente il tentativo di approssimarsi il più possibile alla verità storica, sia pure al quarto tentativo. Nella sentenza, non poteva essere altrimenti, gli aspetti chiave sono due: un falso pentito e una agenda scomparsa. Sul primo aspetto la sentenza fa sicuramente dei passi avanti. Le deposizioni di Vincenzo Scarantino erano già state ritenute false e perfino sanate negli effetti che avevano causato a partire dal primo processo che aveva condannato alcuni personaggi perfettamente estranei alla vicenda. Il passo avanti di questa sentenza sta nella ufficializzazione, per dire così, della genesi del falso pentimento. Anche a questa possibile lettura si era, per gradi, già arrivati. Si può dire che molto aveva fatto la difesa degli imputati rivelatisi poi innocenti e nondimeno condannati in prima battuta. L’avvocata Rosalba De Gregorio, già in primo grado aveva mostrato le palesi incongruenze del finto pentito. Ora la sentenza mette nero su bianco che Scarantino era stato istruito da un gruppo di poliziotti agli ordini dell’allora questore Arnaldo La Barbera, scomparso 16 anni fa.

 

Un “pentito” costruito a tavolino, con le buone o con le cattive, per dare risposte false alla fase preparatoria della strage. Il furto della macchina da imbottire di esplosivo e i partecipanti alla sua preparazione. Scarantino viene istruito con particolari veri che solo gli investigatori potevano conoscere ma riempie i buchi dell’indagine inserendo gli unici mafiosi che conosceva, quelli del suo quartiere, alcuni suoi parenti. Si tratta tecnicamente di un depistaggio. Gravissimo, perché insinua il dubbio che non sia stato fatto per coprire un buco nell’indagine ma i veri responsabili. Scarantino però recalcitra, avverte la sua famiglia che naturalmente avverte la stampa. La vicenda viene fuori nel processo di primo grado, quando il “pentito” arriva in aula dopo essere stato testato in istruttoria dai pubblici ministeri. Siamo arrivati alla frase chiave della sentenza scritta 25 anni dopo la strage, nella quale si constata come i pubblici ministeri si siano tenuti ben lontani dal metodo utilizzato da Giovanni Falcone per riscontrare le parole dei pentiti. Non è certo un attestato di professionalità per quei pm, a cominciare dal loro capo Giovanni Tinebra per finire al più giovane di tutti, Nino Di Matteo. Il depistaggio era gravissimo, come enfaticamente oggi notano molti titoli di giornale, ma il suo ordito piuttosto grossolano, con un po’ di attenzione, che solo Ilda Boccassini mostrò, inascoltata, di avere, poteva essere svelato. In fondo questa sentenza ci mostra, dopo un quarto di secolo, quanto fosse mirata, e autoevidente, la logica mafiosa dell’attentato di Capaci, prima di quello di via D’Amelio.

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