Un gruppo di sostenitori dei genitori di Alfie Evans (foto LaPresse)

Il caso di Alfie Evans smaschera la deriva antropologica-culturale in corso

Matteo Matzuzzi

Ancora sostegni vitali al bimbo inglese malato. Fino a quando?

Roma. Alla fine l’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool ha deciso di sospendere l’interruzione dei sostegni vitali (nutrizione, idratazione e ventilazione) al piccolo Alfie Evans, il bambino di 23 mesi affetto da una patologia neurodegenerativa. Lo scorso febbraio, il giudice Anthony Hayden aveva posto la parola fine alla vicenda, firmando una sentenza che autorizzava i medici a staccare i macchinari che tengono in vita Alfie. “Ha bisogno di quiete e pace”, aveva concluso il magistrato. Mercoledì sera era intervenuto, come nel caso di Charlie Gard, il Papa: “E’ mia sincera speranza che possa essere fatto tutto il necessario per continuare ad accompagnare con compassione il piccolo Alfie Evans e che la profonda sofferenza dei suoi genitori possa essere ascoltata. Prego per Alfie, per la sua famiglia e per tutte le persone coinvolte”, si legge sull’account ufficiale Twitter del Pontefice.

 

Ma il caso di Alfie è diverso da quello di Charlie, “perché nel caso di Alfie manca una diagnosi clinicamente ed eziologicamente certa”, dice al Foglio il professor don Roberto Colombo, genetista clinico e docente della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma, nonché membro ordinario della Pontificia accademia per la vita. “Non si conosce la causa della sua malattia, mentre per Charlie si sapeva che si era in presenza di una rarissima forma di malattia da deplezione del Dna mitocondriale, con un preciso blocco metabolico nucleosidico identificato, che suggeriva l’ipotesi di procedere a un trattamento sperimentale già noto, seppure dall’esito incerto. Charlie – spiega il genetista – soffriva di una malattia comunque aperta a una possibile terapia. Il quadro clinico di Alfie, invece, (per quanto ne sappiamo dalla documentazione resa nota), lascia supporre una patologia neurodegenerativa di probabile origine metabolica. Ma questo non significa che si debbano interrompere le cure essenziali della persona al piccolo paziente e i sostegni vitali. Un quadro che tende a evolvere neativamente, ma potrebbe stabilizzarsi per tempi più o meno brevi. Occorre essere estremamente prudenti: la prognosi è incerta e non bisogna alimentare illusioni”.

 

Nella sentenza del giudice Hayden si citava il Papa, fraintendendo un suo discorso alla Pontificia accademia per la vita dello scorso autunno, quasi che Francesco avesse dato il via libera all’interruzione dei sostegni vitali: “Personalmente – dice il prof. Colombo – ritengo che non sia secondo ragione giuridica che una sentenza civile, che dovrebbe basarsi sulle perizie mediche e sull’ordinamento giudiziario britannico, ricorra invece, nelle motivazioni, alle parole di un Papa, cioè del rappresentante di un’istituzione religiosa, che si esprime in un testo e in un contesto non giudiziario. Tra l’altro fraintendendole, come dimostra l’interpretazione data dal giudice a quel discorso di Francesco. Si è lasciato intendere che le parole del Pontefice contro l’accanimento terapeutico fossero applicabili anche al caso di Alfie Evans. Ma qui la realtà è ben diversa: si vuole togliere non una terapia, ma dei sostegni vitali, cosa che il Papa non ha mai approvato in alcun suo intervento, mettendo anzi in guardia dall’abbreviare la vita, dall’anticipare la morte di un malato, anche inguaribile”. L’importante, però, è non alimentare illusioni irragionevoli: “Non ci sono possibilità di recupero, il quadro neuropatologico del bambino si sta degenerando, ma non sappiamo qual è la velocità con cui questo avverrà e quando sopraggiungerà la morte. Gli specialisti che hanno visitato il piccolo hanno parlato di uno ‘stato semi-vegetativo’, che fa pensare a un quadro in evoluzione sì, ma probabilmente lenta. Senza illudersi che il bambino possa migliorare, nulla vieta perentoriamente che egli si possa stabilizzare, almeno per un certo periodo di tempo”.

 

Quel che stupisce, in questo caso come in quello di Charlie, è la “fretta” nel voler portare a un epilogo situazioni così dolorose. “Da una parte – dice il genetista dell’Università Cattolica –penso che l’ospedale britannico abbia dei limiti di budget e di allocazione delle risorse destinate alla terapia intensiva neonatale/pediatrica. In questo caso, il bambino viene giudicato come un paziente non ‘promettente’, che ha scarse probabilità di ‘farcela’ in termini di recupero funzionale. La seconda ipotesi, verosimilmente, è quella di non creare illusioni nei genitori. La terza motivazione, forse quella decisiva, è di natura culturale ed etica: si considera che la vita di questo e altri bambini inguaribili non sia degna di essere vissuta e perciò di essere sanitariamente curata. Vi sono diverse espressioni nella sentenza del giudice che lo lasciano supporre. C’è un vento culturale che tira in questa direzione, in Inghilterra e altrove. Non solo (e non tanto) negli ambienti medici, ma anzitutto nelle élite culturali, giuridiche e politiche dominanti. E’ una deriva antropologica-culturale pericolosa non solo per l’idea e la prassi stessa della medicina, ma perché nega la dignità inalienabile della vita di ogni persona in qualunque circostanza essa si venga a trovare”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.