Campi di lavoro sovietici sul mar Bianco (foto via Wikimedia)

La disperata voglia di libertà a sessantacinque gradi sottozero

Rinaldo Censi

“Il caso Kravčchenko” è una delle testimonianze più dolenti mai scritte da un esule. Ci fa rivivere tre mesi di dibattimento, annotando ogni cosa in maniera furiosa e clinica. Fino a quel momento quasi nessuno conosceva i campi di lavoro sovietici

A un certo punto della sua vita, Victor Kravčchenko, addetto alla missione commerciale sovietica negli Stati Uniti, decide di fuggire dal suo paese. Chiede asilo politico al governo americano nell’aprile del 1944. Nel febbraio del 1946 pubblica una biografia che è anche una sorta di memorandum sulle condizioni di vita sotto il regime staliniano. Sono passati solo nove mesi dalla resa della Germania. Intitolato “Ho scelto la libertà”, il libro è un documento incandescente e terribile. Viene tradotto in numerosi paesi. In Italia lo pubblica Longanesi nel 1948. In Francia esce invece l’anno prima, nel 1947. Proprio lì avrà luogo tra gennaio e marzo 1949 un processo che ha per protagonisti lo stesso Kravčchenko e la rivista politico-letteraria Les lettres françaises, vicina al Partito comunista, responsabile di una campagna diffamatoria nei confronti del libro e del suo autore.

   

È grazie a Nina Berberova se oggi abbiamo la possibilità di rivivere in forma cartacea quei mesi di dibattimento. Fu lei a seguire come redattrice di una rivista di emigrati russi tutte le udienze, annotando ogni cosa in maniera furiosa e clinica. Insieme a “Il corsivo è mio”, questo suo “Il caso Kravčchenko” resta una delle testimonianze più dolenti mai scritte o riportate da un esule. Il processo, seguito anche da personaggi come Sartre e Aragon, oscilla tra momenti di tensione, rabbia, incredulità. L’intero spettro delle emozioni è catturato dalla penna della Berberova. Riverbera nelle reazioni del folto pubblico presente. Non mancano momenti di ilarità, siparietti involontariamente comici. Gli avvocati del periodico le provano tutte per far cadere Kravčchenko in errore, ma ogni accusa viene rintuzzata provocando a volte le risa del pubblico. Ma non fiata una mosca davanti ai racconti dei testimoni giunti a supportare con i loro ricordi le pagine scritte dall’esule russo. Fino a quel momento nessuno, o quasi, era a conoscenza dei campi di lavoro sovietici. E delle loro usanze.

  

Così, se siete interessati a sapere che cosa sia una “rondine” o un “gatto”, non vi resta che leggere la ristampa del libro appena pubblicata da Guanda, introdotta da Marco Belpoliti. La “rondine” è un “bambino legato mani e piedi che viene buttato a terra e picchiato”, il “gatto” è una “grata posta nell’ultimo vagone di un treno per impedire che qualche detenuto fugga lasciandosi scivolare tra le ruote”. Sono solo alcuni esempi gergali che riportano le condizioni di vita dei detenuti, il trattamento riservato alle donne, le condizioni atmosferiche siberiane (c’è chi come il detenuto Krevsun, accusato di complotto contro Stalin, viene condannato ai lavori forzati nelle miniere d’oro a Magadan, a sessantacinque gradi sottozero; il resto del tempo lo passerà a Kolyma).

 

Nina Berberova vede transitare durante le udienze un piccolo microcosmo della popolazione russa. Sono semplici cittadini, contadini, ingegneri: molti si sono presentati spontaneamente. Portano la loro testimonianza. È l’orgoglio del popolo russo che va difeso, non il partito. I ricordi sono terrificanti. Cadaveri lasciati lungo la strada, gli interrogatori infiniti e sfinenti, le purghe. Dall’altra parte, il periodico francese convoca milizie, generali, giornalisti vicini al partito; un’ex moglie di Kravčchenko, Zinaida Gorlova, accusa l’ex marito di maltrattamenti e di averla fatta abortire. Ma le cose, scopriremo, sono assai diverse da come le descrive l’avvenente bionda (così la descrive Berberova). Insomma, i giochi si fanno davvero sporchi, senza pietà. Durante le udienze c’è anche spazio per mettere in discussione il manoscritto russo del libro, esposto e analizzato in aula.

  

Nina Berberova annota ogni cosa. Sottolinea ogni fatto saliente; resta impassibile davanti alle atrocità elencate? Scrive. Costruisce il libro suddividendolo per giornate. Divide le udienze in “quadri”, “sequenze”: l’aula del tribunale diventa una specie di quinta teatrale dove transita una parata di testimoni che lei riesce a tratteggiare con arguzia, notando tic, dettagli drammatici. E chissà che a qualcuno non venga in mente di portare questi dialoghi in scena. Ci riflettevo mentre leggevo il libro.

   

   

E ho ripensato alle immagini di un altro processo, filmato stavolta, composto con materiali ritrovati da Sergei Loznitsa, regista russo di fama internazionale (suo, tra gli altri, il film intitolato “Austerlitz”, dedicato al turismo legato ai campi di concentramento). In “The Trial”, Loznitsa condensa in poco più di due ore undici giorni di un processo staliniano degli anni Trenta. Ci mostra la condanna inflitta a otto uomini, accusati di appartenere a un fantomatico partito degli industriali il cui fine ultimo sarebbe stato il sabotaggio dello sviluppo sovietico. Ovviamente il partito e le accuse erano inesistenti. Nondimeno, gli imputati si dichiarano colpevoli. Scandito implacabilmente in un bianco e nero luminoso, del film tratteniamo lo sguardo perso e terrorizzato degli imputati. Uno sguardo che parla più di mille parole.