Il gulag di Perm, in Russia

Il Cremlino incoraggia l'amnesia sui gulag

Micol Flammini

Il racconto di sei donne, ormai anziane, su Stalin e la storia che i russi non vogliono conoscere

Le loro voci si odono appena, le parole trascinate, il passato che nella testa si fa più forte e più vicino del presente. Le sei donne, sei protagoniste, sei narratrici del documentario “Women of the gulag”, della regista russo-americana Marianna Yarovskaya, sono tra gli ultimi sopravvissuti dei campi di lavoro sovietici e per tutta la durata del film ricordano. Ricordano i morti, le tombe vuote, ricordano il freddo, il tempo che si perdeva nei minuti e diventava eterno nelle celle umide. Ricordano un’infanzia che si è fatta adulta in fretta, i mariti conosciuti appena, la paura che ogni gesto fosse fuori posto, le punizioni e i genitori scomparsi. Le sei donne, Fiolka, Vera, Ksenia, Natalia, Elena e Adile hanno tra gli ottanta e novant’anni, due di loro sono morte poco dopo il documentario, e sono una delle prime testimonianze femminili sulla vita dei gulag. Il film in Russia ha ricevuto scarsa attenzione, era anche tra i film candidati all’Oscar nella categoria Best Documentary (Short), non è entrato a far parte della cinquina finale e continua a essere ignorato in patria, dove, in un modo o nell’altro, la vita famigliare di molti cittadini è stata interrotta dalla presenza, o dalla paura, dei campi di lavoro. Anche la storia famigliare di Yarovskaya è stata influenzata dai gulag e la regista ha deciso di cercare per tutta la Russia persone che potessero raccontare. Procedendo con le ricerche, si è resa conto che non solo queste donne erano disposte a condividere quella che era stata la tragedia della loro vita, ma lo volevano. Desideravano liberarsi delle immagini e della sofferenza, “ho vissuto così a lungo per poter mostrare la verità”, dice Adile con gli occhi rivolti alla telecamera. Il gulag è una storia ancora poco raccontata: mentre giravano il documentario, le autorità russe non hanno cercato di ostacolare le riprese in nessun modo, ma più la regista andava avanti con le ricerche, più si rendeva conto che il Cremlino sta portando avanti una sottile operazione di rimozione della memoria dei gulag. Lo scorso anno sono stati distrutti interi archivi che contenevano le storie dei prigionieri, i loro oggetti, le foto, date di nascita e di morte. 

 

Alcuni storici locali sono stati dissuasi dal continuare le ricerche sui campi di lavoro, sono stati minacciati mentre ritrovavano le tracce, una dietro l’altra, di nuovi gulag dispersi negli Urali. Dietro a tanta voglia di nascondere, di negare, di chiudere gli occhi, c’è un legame quasi affettivo che unisce ancora il popolo russo a Stalin e la volontà da parte del Cremlino di ricordare le glorie e non le ombre del passato nazionale. Nel tentativo di riscrivere la storia, di renderla edificante, il governo finanzia film per ricordare la vittoria contro Napoleone o quella contro Hitler, ha promosso un nuovo canale televisivo che si chiamerà “Pobeda”, “Vittoria”, sarà attivo dal 2020 e trasmetterà film e documentari sulla Seconda guerra mondiale, la Grande guerra patriottica. La storia in Russia deve fare da collante, deve unire e raccontare, e i gulag non si prestano a questa retorica. Poi c’è la figura di Stalin, enorme e pesante, amata ancora molto, ma scomoda per il Cremlino. Nella memoria dei russi più giovani i campi di lavoro non sono mai esistiti, per qualcuno invece sono stati un sacrificio indispensabile per vincere la guerra e per permettere l’industrializzazione dell’Unione sovietica. Quando nella mente di Marianna Yarovskaya iniziava a prendere forma l’idea di girare un documentario, la regista si è resa conto che la Russia non ha mai ragionato sul suo passato. Non ha avuto la voglia, o forse il tempo, e le voci dei sopravvissuti rimanevano confinate, lontane e solitarie, morivano a poco a poco. Dopo la sua uscita, “Women of the gulag” è stato bersagliato, trollato e accusato di essere il tentativo di esportare un’immagine negativa della Russia. I negazionisti hanno accusato le donne di mentire, di aver inventato le percosse, la prigionia, la tragedia, di aver confuso la verità con la fantasia. E poi quell’etichetta “agente straniero”, usata ai tempi dei gulag, una delle più frequenti, e oggi di ritorno. Sono agenti stranieri i media finanziati da imprenditori non russi, sono agenti stranieri le associazioni per i diritti umani, e anche Marianna Yarovskaya è stata accusata di essere un agente straniero.

 

Scorrono le mani sugli album di famiglia, Vera racconta di essere stata arrestata perché suonava con il suo violino delle canzoni tedesche, Adile parla del freddo, Natalia della tomba vuota dei genitori. Il passato è passato ed è inutile dedicargli lacrime. Le sei donne non piangono, ma raccontano, parlano, dicono quella storia che i russi non vogliono più sentirsi raccontare. Il Cremlino ha incoraggiato questa amnesia, Stalin rimane il personaggio più importante della storia per i russi, e i ricordi dei gulag stanno morendo di vecchiaia.

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