La marcia delle madri con l’adesivo di un cuore nero attaccato sul petto. Foto dal profilo Facebook di Galina Fil'chenko, una delle organizzatrici

In Russia le madri risvegliano le piazze

Micol Flammini

L’arresto di un’attivista, la burocrazia lenta, le autorità pigre e la morte di una figlia in ospedale

Roma. Sono state le madri, e con loro anche i padri, i figli e le figlie, i russi che davanti al sorgere incostante ma prolungato di leggi, decreti, divieti e ammonimenti da parte del Cremlino hanno deciso domenica di riempire le strade. Erano a Mosca, erano a San Pietroburgo, erano a Rostov sul Don, qualcuno chiedeva di fare un passo indietro sulla riforma delle pensioni, qualcuno di fare un passo avanti e superare le limitazioni che le autorità vorrebbero imporre su internet, altri il rispetto degli oppositori politici. Ma soprattutto c’erano loro: le madri che sfilavano con l’adesivo di un cuore nero attaccato sul petto. Con le madri, la loro rabbia. Alle manifestazioni infatti, che sembravano più un corteo unito e compatto, testardo e doloroso, gli organizzatori hanno dato il nome di “Marcia della rabbia materna” e tutta questa rabbia ha un precedente. 

  

Anastasia Shevchenko vive dal 23 gennaio agli arresti domiciliari, è un’attivista, lavora per Otkrytaya Rossia, conosciuta all’estero come Open Russia, la fondazione dell’oligarca russo Mikhail Khodorkovski nata per difendere il rispetto della democrazia e dei diritti umani. Anastasia, Nastja, è la prima persona a essere stata accusata per una legge introdotta nel 2015, ma mai applicata. La legge contro le “organizzazioni indesiderabili”, aggettivo che, insieme a “straniero”, muove dei ricordi di un passato non troppo lontano per i russi. Nastja è una madre, sua figlia di diciassette anni era ricoverata da tempo, ma a fine gennaio era stata trasferita in un reparto di terapia intensiva, soffriva di insufficienza cardiaca. A nulla sono valse le richieste di Nastja e l’insistenza di alcune organizzazioni per la tutela dei diritti umani. A Nastja non veniva rilasciato il permesso di raggiungere l’ospedale, ha potuto vedere sua figlia soltanto poche ora prima che morisse. Qualcuno dà la colpa all’ospedale, che avrebbe tardato nel dare conferma alle autorità della reali condizioni della ragazza, qualcuno invece al Cremlino e voci di rabbia e di indignazione per le strade domenica gridavano: “Libertà per i prigionieri politici”. La decisione di organizzare la marcia era stata presa dopo la morte della ragazza, Mosca aveva tentato di bloccare i manifestanti, alla richiesta di organizzare le proteste aveva risposto che non era stato rispettato il termine necessario per presentare la richiesta. La lettera di risposta era stata da subito messa su Facebook dagli organizzatori con il commento di una di loro, Varvara Gryaznova: “La nostra rabbia non è soggetta ad autorizzazione” e aggiungeva che la marcia avrebbe comunque avuto luogo il 10 febbraio. Così è stato, domenica scorsa la marcia, Marsh materiskogo gneva, e durante la marcia gli scontri e dopo la marcia gli arresti.

   

“Il nostro sistema – ha commentato Yulia Galyamina, una degli organizzatori delle proteste, intervistata da Radio Free Europe – è arrivato a tal punto che sta combattendo anche contro le madri” e quindi contro i figli. Del marito di Nastja non si sa molto, ma l’immagine che continuava a tornare alla mente di quelle donne, madri, figlie, attiviste, arrabbiate era l’immagine della ragazza di diciassette anni sul letto di un reparto di terapia intensiva, rimasta sola per la lentezza della trafila burocratica o per la mancanza di umanità delle autorità. Alcuni gruppi a sostegno del Cremlino hanno cercato di bloccare la marcia, si sono scontrati con i manifestanti. La polizia è intervenuta, in ogni città, ha arrestato attivisti e anche i violenti filogovernativi. Le donne in marcia hanno promesso che ci saranno altri incontri, altre donne scenderanno in piazza, altre giovani non ancora madri si metteranno al petto l’adesivo con il cuore nero. Di domenica in domenica. Di generazione in generazione. “Molte mie amiche – continua Varvara – che hanno deciso di manifestare provano tutte lo stesso sentimento: la rabbia. Anche noi abbiamo dei figli e anche noi possiamo essere arrestate in qualsiasi momento”. E’ questo senso di sospensione, l’ansia di vivere in bilico e l’incertezza di quanto durerà la libertà per le strade ad aver rotto ancora di più il legame tra Cremlino e cittadini. “Non si tratta soltanto di essere coinvolti in politica – continua Varvara – Chiunque può essere danneggiato dallo stato che non aiuta le persone, ma si intromette nella loro vita”. Tutta questa precarietà genera rabbia e il caso di Nastja e di sua figlia ha risvegliato una rabbia che è tra le più forti e le più antiche: la rabbia materna.

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