Al suo arrivo negli Stati Uniti nel 1967, Svetlana Allilueva tenne una conferenza stampa per denunciare il regime sovietico. In foto Svetlana bambina in braccio a suo padre (via Wikimedia)

Sono stata figlia di Stalin

Micol Flammini

Amori non amati, sogni mai sognati. E Svetlana, che sapeva tutto, alla morte del padre fuggì dalla sua identità

Soltanto due persone videro Stalin sul letto di morte, nudo e immobile: il suo medico personale Mjasnikov e sua figlia Svetlana. Lei gli rimase accanto durante i tre giorni della sua agonia, soltanto lei fra i tre figli. Quando Stalin morì, dopo i funerali solenni, la lotta per la successione, la Russia si distese, e così fece anche Svetlana. Per lei, come per la Russia, quella morte segnò una svolta. Percorse a ritroso la sua vita, la sua infanzia che non poteva dirsi triste, e capì che la sua esistenza sarebbe appartenuta soltanto a suo padre, ai corridoi ricoperti di tappeti rossi del Cremlino, alla nomenklatura, alle guardie del corpo che da sempre l’avevano accompagnata ovunque, a scuola, ai saggi, a trovare suo padre, al funerale di sua madre, ai suoi matrimoni, al lavoro. Svetlana insegnava inglese all’università, era una traduttrice di quella lingua che garantiva l’accesso a un mondo antitetico al suo. Anche lì arrivava con le sue guardie del corpo e tutti sapevano che lei era Svetlana Iosifovna Stalina.

       

Si innamorò presto e scelse l’uomo che meno sarebbe potuto piacere a suo padre: un regista ebreo, Aleksei Kapler

Il suo era un cognome politico, tratto dal nome che era stato dato a suo padre: uomo d’acciaio. Una volta gli domandò se fosse possibile cambiarlo, voleva liberarsi di quel cognome fabbricato, forgiato per definire e descrivere la personalità del leader sovietico, legato a una lotta politica che l’aveva sempre tormentata. Suo padre non rispose, era uno di quei silenzi interminabili, gli stessi che lui utilizzava per mettere in imbarazzo i rivali – lo aveva usato con tutti, anche con Roosevelt e con Churchill. Quel silenzio non finì mai, si dissolse nella consapevolezza che lei sarebbe dovuta rimanere per sempre la figlia di Stalin. Eppure una delle prime cose che fece dopo la morte del padre, tre anni dopo, fu liberarsi del suo cognome, e decise di chiamarsi Allilueva, come sua madre. Quando Svetlana ripercorse la sua vita, così segreta eppure così pubblica, lo fece pubblicando un libro di memorie, “Venti lettere a un amico” che le costò la perdita della cittadinanza sovietica. Da lontano osservò a ritroso la sua esistenza, la sua infanzia, i sentieri della storia russa, intrecciati a quelli della sua vita privata. Descrisse gli ambienti asettici, tutti identici, tutti numerati, delle dacie in cui era cresciuta – suo padre amava i boschi e adorava le dacie le quali non avevano nomi, ma si distinguevano l’una dall’altra dalla lontananza da Mosca –, l’arredamento essenziale, i quadri di pessimo gusto, i mille telefoni, l’ordine, la disciplina, i cibi georgiani. Descrisse la morte di suo padre: “Portarono la barella e vi deposero il corpo. Per la prima volta vidi mio padre nudo: un bel corpo non ancora cadente, non ancora vecchio”. Nella morte di sua padre, nella fissità della malattia ormai consumata, Svetlana vide tutta la sua umanità.

    

Era nata nel 1926, per suo padre non si trattava del primo matrimonio. La madre, Nadezhda Allilueva, era georgiana, modesta e sorridente. La prima moglie con la quale aveva avuto il suo primo figlio, Jakov, si chiamava Ekaterina Svanidze, Stalin era orgoglioso di aver sposato una georgiana, non amava le russe, ribelli, forti, intellettuali, indipendenti. Quando Ekaterina morì lasciandolo solo con un bambino, Stalin non aveva intenzione di risposarsi, le donne che lo circondavano erano le compagne, libere, emancipate come la Kollontaj. Non voleva una donna così ma quando incontrò Nadezhda decise che era arrivato il momento di risposarsi. Nacque prima suo fratello Vasili e poi lei, Svetlana. Il dittatore la preferiva rispetto ai fratelli, amava trascorrere il tempo in sua compagnia, passeggiando. Amava prestarle i libri e farle ritrovare tra le pagine qualche sorpresa, cartoline, scarabocchi, il suo nome scritto a matita e nascosto tra le righe, Svetlana, Svetochka, Svetlanka.

 

Giocava con Zhdanov e con Khruscev, si sedeva sulle ginocchia di Berija. La coccolavano, le insegnavano canzoni e filastrocche

A lei Stalin aveva parlato di Lenin e del primo incontro che era stato ben al di sotto delle aspettative del georgiano, il quale non immaginava che si sarebbe trovato davanti un uomo così piccolo e magro. Lo incontrò in Finlandia, ma la loro frequentazione iniziò a Cracovia dove Lenin aveva spesso invitato Stalin a trascorrere la serata a casa sua, ma Stalin aveva spesso declinato l’invito. Non amava il fatto che Lenin non bevesse e per di più lo rimproverava per l’odore del suo tabacco. Stalin fumava la pipa, ma non amava i tabacchi raffinati, la riempiva di makhorka, il tabacco del proletariato. Quell’odore Svetlana se lo portò per sempre nelle narici, come tutte le immagini di suo padre caratterizzate da un ripetersi incessante di azioni sempre uguali. Tutto era identico a se stesso, il tempo, il cibo. La vita era racchiusa in uno schema fisso, nelle abitudini. Stalin ad esempio vestiva sempre uguale, l’uniforme, i baffi, la pettinatura, tutto identico, immutabile, paralizzato in una ripetitività granitica che era la stessa che bloccava la storia russa. Amava vivere da eremita, ma alla figlia dedicava tempo, lasciava che lei ridesse di lui quando le raccontava che da giovane era stato in seminario e del suo primo lavoro in un osservatorio fisico a Tbilisi. Stalin sembrava figlio del nulla, Svetlana sapeva che era georgiano e il suo accento stentatamente russo e spiccatamente caucasico tradiva le sue origini e nonostante lei lo pregasse di raccontare dei suoi nonni paterni, delle sua giovinezza in Georgia, lui taceva. Raccontava però un aneddoto che divertiva molto Svetlana: quando andò a trovare sua madre che non aveva mai lasciato la Georgia, lei lo rimproverò per aver lasciato il seminario, non le interessava che suo figlio fosse diventato il capo del Cremlino, il potere temporale per l’anziana Ekaterina contava poco.

  

Svetlana si era intrufolata in tutti i segreti della storia russa, senza saperlo. Partecipava alle serate organizzate da suo padre, le feste smodate in cui il leader sovietico amava vedere i suoi colleghi perdere il controllo, addormentarsi, ubriacarsi, inciampare, urlare, cantare. Riempiva la tavola di vino e cibo, a fine serata obbligava gli ospiti a lunghe sedute cinematografiche. Per Svetlana i singoli rappresentanti del Partito, i tormenti della storia russa, erano la quotidianità. Giocava con Zhdanov e con Khruscev, si sedeva sulle ginocchia di Berija, la coccolavano, le insegnavano canzoni e filastrocche. Rimaneva con loro e poi continuava a spiarli per tutta la serata. Notava i camerieri che, di comune accordo con suo padre, facevano scherzi e dispetti agli invitati. Tutti si lasciavano andare, tutti bevevano troppo, cantavano eccessivamente, perdevano equilibrio e dignità. Tutti tranne lui, suo padre. Lo sapeva soltanto lei e qualche cameriere, Stalin che amava l’alcol, non lo reggeva bene. Era il capo supremo e non poteva di certo permettersi di mostrarsi fuori controllo, lui era sempre sobrio e in questo lo aiutava il suo bicchiere dal doppio fondo.

 

Stalin era orgoglioso di aver sposato una georgiana, non amava le russe, ribelli, forti, intellettuali, indipendenti

L’infanzia di Svetlana in cui il Partito era gioco, famiglia e quotidianità, passò in fretta. Non assomigliava a suo padre, era slanciata ed esile con gli occhi dolci e le guance paffute, era più simile a sua madre, scomparsa quando lei era ancora troppo piccola per ricordarla. Nadezhda si suicidò nel 1932, tra le mura del Cremlino. Prese la pistola del marito e si sparò alla tempia. Quando Svetlana lo seppe, pianse e suo padre le disse che era stata l’appendicite a uccidere sua madre, lei non sapeva cosa fosse l’appendicite e non sapeva nemmeno cosa fosse la morte. Ma capì presto il significato dell’assenza e del vuoto. Non ricordava sua madre, ma ricordava la poltrona sulla quale si sedeva per leggere ogni sera, ricordava la dolcezza, la malinconia di una donna che prima di lei aveva imparato a vivere una vita che appartiene ad altri. Svetlana chiedeva a Stalin di parlarle di Nadezhda, dove si erano incontrati, il giorno del matrimonio, voleva sapere da cosa, da quale istante provenisse la sua esistenza. Lui non rispondeva. La stanza di Nadezhda venne riarredata, scomparve la poltrona, scomparvero i libri di sua madre, scomparve sua madre. Fu Polina Zhemchushina, moglie di Molotov, a raccontare la verità che Svetlana scoprì di avere sempre saputo.

   

Svetlana si innamorò presto, aveva sedici anni e scelse l’uomo che meno sarebbe potuto piacere a suo padre: un regista ebreo, Aleksei Kapler. Era l’accesso a un mondo sconosciuto, la scoperta di un universo al di fuori della Russia e di un cosmo dentro la Russia. Con lui iniziò a leggere Hemingway e Anna Achamtova. Kapler venne internato in un gulag, il padre cercò di tenerlo nascosto, ma quando la figlia lo venne a sapere, scoprì che anche questa verità, in fondo, l’aveva sempre immaginata. Qualche anno dopo Svetlana sposò Grigori Morozov. Divorziò quattro anni più tardi, dopo aver avuto un figlio che chiamò con il nome di suo padre, Iosif. Poi ci fu un altro matrimonio, questa volta voluto anche da Stalin. Il secondo marito era Juri Zhdanov, figlio di uno dei collaboratori più importanti di suo padre. Ma Zhdanov padre morì nel 1950 e anche quell’unione, nonostante la nascita di Ekaterina, perse senso.

 

Nel libro “Là dove si inventano i sogni” la figlia di Stalin viene raccontata immersa nella sua Mosca. La città era la sua famiglia

Svetlana si innamorò di nuovo, dieci anni dopo la morte di suo padre. Venne ricoverata in ospedale per dei problemi respiratori e lì conobbe Brajesh Singh, un comunista indiano. Lui morì pochi mesi dopo e lei cercò il suo posto, la sua dimensione fuori dalla Russia. Andò in Cina per spargere le ceneri del suo amore nel Gange. In India comprese la leggerezza della trasparenza, l’assenza del suo nome. Ormai non era più Stalina, aveva già cambiato il suo cognome in Allilueva, ma il piacere di girare per le strade senza il peso della Russia la rendeva felice e scoprì che tornare in Unione sovietica non era quello che desiderava. Andò all’ambasciata americana a Delhi e chiese il visto per gli Stati Uniti. Volò a New York e non rivide più Mosca. Svetlana è una delle donne ritratte da Margherita Belgiojoso in un libro edito da Guanda “Là dove si inventano i sogni”. In questa galleria di desideri, paure e donne, la figlia di Stalin viene raccontata immersa nella sua Mosca, se il Cremlino era una prigione, la città era la sua famiglia. Cresceva con lei, cambiava come lei, veniva stravolta, distrutta, ridisegnata dalle volontà di suo padre.

     

Svetlana sapeva tutto. Non perché avesse visto o fosse stata testimone dei crimini di Stalin. Aveva convissuto con la sensazione e con il dolore di quel sapere ignoto. Quando Khruscev la mandò a prendere e le chiese di leggere il rapporto che avrebbe presentato il giorno dopo sui crimini di suo padre, studiò il documento senza stupore, era già a conoscenza di tutto. “Stalin era sdraiato, non alto, corpulento, il viso era storto, gli arti di destra pendevano inerti. Ansimava, ora più ora meno forte”, scrisse il medico personale Mjasnikov. Svetlana era lì, unica dei tre figli, a intessere nel respiro del padre la sua storia, a ripercorrere la sua infanzia felice, la morte della madre, gli uomini non amati. Smetteva di essere figlia di fronte al corpo immobile di Iosif Vissarionovich Dzugasvili. Che non era più Stalin, non era più il capo dell’Unione sovietica, non era più un dittatore e nemmeno un padre. Era passato, era corpo, pura materia.

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