Lyudmila Alexeeva

Ljudmila Alexeeva e la Russia

Micol Flammini

I funerali con Putin della Alexeeva sono la conclusione della vita in due atti di una grande attivista russa

Roma. Il desiderio di Ljudmila Alexeeva di morire in prigione giusto per dare fastidio a Putin non si è realizzato e anche lei avrà pensato che in fin dei conti è stato meglio così. E’ morta sabato a novantuno anni e i suoi funerali ieri sono stati lo strambo epilogo del suo rapporto con il potere russo. Una volta, durante il suo esilio negli Stati Uniti scrisse che “chi ha sopportato con dignità la prova dei campi di lavoro, non sarebbe in grado di sopportare l’emigrazione”. Lei la superò, superò il comunismo e il putinismo, con il quale tentò sempre di collaborare, perché era un’ottimista implacabile e, più veniva arrestata più si rallegrava e ripeteva che era il segno del crescente interesse dei russi per i diritti umani. La sua storia si divide in due atti: il periodo sovietico e l’èra di Putin.

 

Poi l’epilogo: il suo funerale allestito dentro la Casa centrale dei giornalisti, per i moscoviti la Domzhur. Era figlia del Disgelo kruscheviano, di una generazione che dopo la denuncia dei crimini di Stalin nel 1956 aveva riscoperto il gusto della parola, il sapore delle idee e la forza dell’arte. Il periodo durò poco ma quei giovani che ormai si erano abituati a pensare e a dire, scrivere, dipingere quello che pensavano, non erano disposti a ibernare di nuovo tanta libertà. Alcuni vennero arrestati, altri condannati, chi rimaneva fuori dalle carceri e dai tribunali cercava di documentare la sorte degli amici su una rivista samizdat “Cronaca degli eventi attuali” (Khronika tekushikh sobytie). La Alexeeva capisce che quella battaglia che stava portando avanti poteva essere organizzata meglio, magari in un gruppo in grado di monitorare la situazione sovietica e il rispetto dei diritti umani. Nel 1976 assieme al fisico Yuri Orlov fonda il Moscow Helsinki group, un’associazione nata per controllare se il governo dell’Unione sovietica rispettasse gli accordi siglati nella capitale finlandese a chiusura della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Orlov fu arrestato e a lei fu offerto di lasciare il paese, se fosse rimasta l’avrebbero mandata ai lavori forzati. Di formazione, Ljudmila Alexeeva era una storica. Quando arrivò il Disgelo aveva ventotto anni, un marito (un matematico) e due figli, la sua educazione era di stampo stalinista. L’esilio negli Stati Uniti e la lontananza dalla Russia furono una condanna inaspettata. In America iniziò a lavorare per la radio, andava a New York una volta a settimana, cinquanta minuti in treno, per la sua rubrica su Radio Liberty. Suo marito la definitiva in inglese “workaholic”, una maniaca del lavoro: studiava, scriveva, inviava lettere e pubblica un libro, “Soviet Dissident” nel 1985, quando il suo paese si stava trasformando in un gigante troppo vecchio e sempre più zoppo. La forza della sua opera è nella nostalgia, nell’ammissione che la lontananza, soprattutto se forzata, fa male e che l’esilio è una vera punizione anche in un posto incredibile come gli Stati Uniti. La Alexeeva non era riuscita a trasformarsi in un’intellettuale occidentale, doveva tornare perché le mancava la battaglia. Il libro venne tradotto in Russia nel 1990 e pochi anni dopo lei tornò a Mosca. Ricostituì il Moscow Helsinki group, che aveva cessato la sua attività nel 1982, e nel 1999 inizia la seconda parte della sua storia.

 

Dal comunismo al putinismo; Ljudmila Alexeeva aveva un rapporto complesso, mutevole con Vladimir Putin. Veniva arrestata e rilasciata, provocava e collaborava. Era membro del Consiglio del Cremlino per i diritti umani, che abbandonò soltanto nel 2012, quando il governo iniziò a promuovere delle riforme che limitavano la libertà di parola dei media e ad arrestare sempre più oppositori politici. Anche se il lavoro della sua organizzazione era stato neutralizzato, impigliato nelle pratiche burocratiche del Cremlino, l’anno scorso accettò la visita di Putin, che andò a trovarla nella sua casa sull’Arbat per il suo novantesimo compleanno. Di quell’incontro venne girato un video: lui le porta dei fiori colorati, un quadretto e un piatto e lei inizia a baciargli le mani. Qualche mese dopo si scoprì che il filmato era stato falsificato.

 

Ieri l’epilogo. Il funerale alla Domzhur, in un’atmosfera che ricordava il mausoleo di Lenin, nella penombra, i riflettori su di lei e sulla bara, appoggiata su un palco ricoperto di raso nero. Putin ai suoi piedi con un mazzo di rose rosse in mano. C’era Alexei Navalny e c’era l’ambasciatore britannico Laurie Bristow, c’erano politici e dissidenti.

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