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Di cosa parlavano Stalin, Churchill e Roosevelt nelle loro lettere

Micol Flammini

I tre leader ridisegnarono il mondo dandosi soprannomi. Un libro spiega come non riuscivano quasi mai ad andare d’accordo, ma stavano sviluppando un certo affetto

Roma. Stalin aveva paura di volare e Churchill invece non faceva altro che spostarsi, spesso su aerei militari gelidi e scomodi. Roosevelt non amava farsi accompagnare con la sedia a rotelle. I tre leader che sedettero a Yalta e a Teheran, insieme per stabilire le sorti di un mondo da ricostruire, si scrivevano continuamente. “Se siamo davvero la Trinità – scherzava Stalin – allora tra noi tre Churchill è lo Spirito Santo”. Il primo ministro britannico era costantemente in viaggio, durante la Seconda guerra mondiale percorreva i fronti lungo il Mediterraneo, si spostava da Mosca a Washington per cercare dei punti di unione tra i due mondi che pochi anni dopo avrebbero iniziato una nuova guerra. Nonostante tutti gli sforzi di Churchill, Stalin gli preferiva Roosevelt. A causa della difficoltà degli spostamenti, della sedia a rotelle del presidente americano, degli impegni del premier britannico e della paura del capo sovietico di volare, i tre leader non si incontrarono spesso, ma si scrissero molto. Lettere, telegrammi, oltre seicento scambi, tutti raccolti in un nuovo libro (The Kremlin Letters: Stalin’s Wartime Correspondence with Churchill and Roosevelt) da due studiosi, uno britannico, David Reynolds, e l’altro russo, Vladimir Pechatnov.

 

Una prima copia della corrispondenza era stata pubblicata nel 1953, dopo la morte di Stalin. Non si trattava della volontà del Cremlino di celebrare il lavoro diplomatico dei tre leader, ma era la risposta alle memorie pubblicate da Winston Churchill, in cui il primo ministro non riconosceva il ruolo dei sovietici nella sconfitta di Hitler. I russi non avevano da contrapporre le memorie del loro leader, allora pubblicarono le lettere, i documenti, i telegrammi, che dimostravano quanto Mosca fosse stata essenziale nel respingere i nazisti. Reynolds e Pechatnov a questo carteggio danno una forma, una spiegazione. Dimostrano che Stalin non amava Churchill perché lo definiva avaro, poco collaborativo e troppo emotivo. Con Roosevelt era diverso, quando nel 1943 venne avviata la conferenza di pace di Teheran il presidente americano propose al capo del Cremlino un incontro informale, senza Churchill. Il primo ministro britannico lo scoprì, Roosevelt mentì, dicendo che il tête-à-tête era stato voluto da Stalin. Tra l’americano e il georgiano c’era un rapporto particolare, il capo della Casa Bianca prima della conferenza decise di soggiornare all’ambasciata sovietica in Iran per passare più tempo con il leader del Cremlino. Stalin amava i silenzi in modo maniacale, sfruttava l’assenza di parole come un’arma e anche per questo i suoi interlocutori spesso preferivano ridurre gli incontri. Non Roosevelt, che, come dimostra la corrispondenza, non era attratto da Stalin, ma sapeva che rimanere il più possibile al suo fianco gli avrebbe garantito la possibilità di studiarlo, capirlo.

 

Dalle trascrizioni che Reynolds e Pechatnov hanno riportato nel libro, i due storici concludono che Stalin era molto più abile, o forse spregiudicato, delle controparti occidentali, come diplomatico. Sapeva interrompere le conversazioni al momento giusto, aveva una completa padronanza dei problemi su tutti i fronti. I tre leader non riuscivano quasi mai ad andare d’accordo, ma stavano sviluppando un certo affetto, dato dalla consuetudine, dal riconoscersi come parte dello stesso progetto. Stalin diede a Roosevelt il nome in codice di Capitano, mentre Churchill era Cinghiale. L’americano e il britannico invece chiamavano Stalin Uj, Uncle Joe. A volte, Churchill invece preferiva usare l’appellativo di Ursus Major. Come sottolineano i due storici, sia Roosevelt sia Churchill commisero un errore fondamentale. Si ostinarono a credere che ci fossero due Stalin: il negoziatore flessibile e l’altro, lo Stalin “costretto a essere duro con i compagni”. Non avevano capito che manteneva il controllo grazie alla paura. Roosevelt sognava un’evoluzione o una convergenza del sistema russo e di quello americano, sperava in una socializzazione del capitalismo americano e in una liberalizzazione del socialismo sovietico, tanto che nel 1944 chiese che i diritti economici venissero aggiunti alle libertà politiche della Costituzione americana. Nel carteggio c’è anche la proposta di Stalin di concludere un’alleanza post-bellica, un’alleanza che fosse di natura politico militare e permanente. Il progetto venne accantonato in fretta, senza una ragione precisa. Forse si pensava che fosse un progetto troppo ambizioso, o il leader georgiano non era sufficientemente convinto.

 

Fu Churchill nel 1946, ormai non più premier, a coniare il termine “cortina di ferro”, a capire per primo, o quanto meno a tradurre a parole quello che stava accadendo, che i suoi alleati – Stalin era sempre al Cremlino, Roosevelt aveva da poco abbandonato la Casa Bianca – si stavano dividendo il mondo e questa volta non erano dalla stessa parte.