Zachar Prilepin

Scrive di gulag, combatte in Ucraina, critica Putin. Parla Zachar Prilepin

Micol Flammini

Intervista all’autore de “Il monastero”, paragonato a Dostoevskij

Roma. “Volevo fare dei tre fratelli, anzi dei quattro, Karamazov un personaggio solo, così è nato Artem, il protagonista”, dice al Foglio Zachar Prilepin seduto in un caffè romano. Guarda la Basilica di Santa Maria Maggiore e parla de “Il monastero” (Voland), il suo ultimo romanzo per il quale lo hanno paragonato a Dostoevskij, a Tolstoj, a Omero e a Solzhenitsyn. Prilepin tra tutti accetta solo il primo. “Il monastero” è un romanzo sui lager ambientato negli anni Venti nelle isole Solovki che l’autore definisce “un riflesso della Russia” e nasce da un intenso lavoro di ricerca. “Quando ho iniziato pensavo di scrivere un racconto, poi non sono riuscito a fermarmi”, e così ha consegnato all’editore un libro di 816 pagine su un tema che, da Solzhenitsyn a Salamov, ha già tormentato la storia e la letteratura russa. “Non ho nulla a che fare con Solzhenitsyn, certo avrei molte domande da porgli, la Russia avrebbe molte domande ma il fatto è che per noi Solzhenitsyn ha un significato molto diverso rispetto a quello che ha per l’occidente”.

 

 

Il noi e il voi, la dicotomia che segna la distanza storica, politica e anche morale tra due mondi lontani come l’Europa e la Russia o come gli Stati Uniti e le Russia arriva in fretta nella conversazione. “Solzhenitsyn presenta un punto di vista che è quello del prigioniero, ma il progetto sovietico era più complesso”. Ci si chiede se nella stesura de “Il monastero” non si celi un intento revisionista: “No”, risponde Prilepin. “La storia la fanno tutti, il prigioniero e il carceriere. Anche chi lavorava nell’amministrazione del gulag faceva parte di questa storia. Ho voluto dare voce a tutti dopo aver raccolto e studiato i documenti necessari”. Nel libro torna a più riprese l’idea dell’uomo nuovo. All’inizio i campi di lavoro, spiega lo scrittore, dovevano servire a creare una nuova idea di umanità. Un pensiero folle e crudele che ha portato all’unico risultato possibile: “una poltiglia sanguinolenta”, come la definisce l’autore. Nel romanzo si intrecciano le voci di molti personaggi, ognuno con sue speranze e crudeltà.

 

La Russia domina come se fosse anch’essa un personaggio che tiranneggia o guida. Una caratteristica non solo del romanzo di Prilepin ma di tutta la letteratura russa. “Forse noi pensiamo troppo poco all’uomo e troppo a Dio. Rilke scrisse che tutte le nazioni confinano tra di loro e soltanto la Russia confina con il cielo – ride – Ci piace credere che sia così, ma non è vero. Questa concezione però fa sì che la nazione abbia un ruolo così importante in ogni aspetto della vita russa”. 

 

“Il monastero” non è un memoir, è la prima opera sui gulag non scritta da un ex detenuto e per questo è un romanzo che dialoga continuamente con la storia. Sei anni fa Prilepin scrisse una lettera che ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica sia in Russia sia all’estero, l’autore si definiva stalinista. “Non è vero – smentisce – era un testo letterario che solo i russi hanno compreso. C’è una sola cosa che può far paura alla borghesia russa, il nome di Stalin. Durante l’Unione sovietica tante persone hanno combattuto contro il potere, gli operai e i contadini sono morti. La borghesia russa – che nella retorica del noi e voi non corrisponde alla categoria europea – si è presa la nazione, come fosse un regalo. Non sono stalinista. La mia era una provocazione postmoderna contro una classe sociale”. Lo scrittore è parso più volte nostalgico nei confronti del passato sovietico, ha militato nel partito nazionalbolscevico di Eduard Limonov – scrittore che oggi definisce “eccessivo, se fosse per Limonov la Russia non dovrebbe riprendersi solo la Crimea, ma dovrebbe invadere tutto, la Turchia, l’Alaska, tutto” –, ma nega che la Russia sia rimasta incastrata nell’Unione sovietica. “C’è una tendenza a volerla vedere così, spesso sento che i media occidentali abusano della parola ‘sovietico’, ma dovrebbero convincersi che l’Urss non esiste più. Tra russi e occidentali c’è un problema di fondo, ci raccontiamo l’un l’altro così come vogliamo vederci”.

  

Prilepin è uno scrittore controverso, ha combattuto in Cecenia e poi in Donbass. Conduce un programma televisivo, Uroki russkogo, Lezioni di russo, nel quale presenta in modo caricaturale molti personaggi del Cremlino, il premier, il presidente, i ministri. “In Russia mi odiano in tanti per le mie posizioni e per i cattivi rapporti con Vladimir Putin. Non posso dire che tutto quello che fa è negativo, ma non sono dalla parte del potere”, conclude Prilepin. Ma, secondo lo scrittore che ha fatto della coralità la nota dominante anche del suo ultimo romanzo, la verità è che non esiste una sola idea della Russia. “La Russia non si può capire, nella Russia si può soltanto credere”, scriveva il poeta Tjutcev nell’Ottocento. Ma tutto è cambiato e Prilepin sembra suggerire il contrario.

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