Io, me e Sanremo

Le lunghe notti di Sanremo, il festival dell'autobiografismo

Salvatore Merlo

Marco Mengoni parla di sé, come la presidente Rai Marinella Soldi. Tutte le feste del Festival del Me

Sanremo, dal nostro inviato. “Porterò me stesso”, dice Marco Mengoni qualche ora prima di salire, da co-conduttore, sul palco del Teatro Ariston. Chissà che sarebbe successo se avesse scelto di portare un altro (quanto meno qualche problema con il pass per l’ingresso, crediamo: la sicurezza Rai è severissima). Poi però Mengoni aggiunge: “Ho cercato di portare me”. Va bene. E  ancora: “Sarò me”. Ma anche: “Sono stato cattivo con me”.  E poi ancora: “Sono contento di essere me”. Ok. E infine: “Mi devo pensare un po’ meno”. Ecco, su questo ultimo aspetto siamo molto d’accordo con il cantante, anche perché il Festival di Sanremo, visto da vicino, sembra il Festival del Me e dell’Io (a  cominciare dall’hashtag “#AmaSanremo” dove “Ama” sta per Amadeus). Per esempio oggi abbiamo ascoltato la presidente della Rai, Marinella Soldi, una gentile signora di cui fino a l’altra mattina non avremmo saputo dire nulla.  Passata alle cronache come la “presidente muta”, nel senso che non s’è mai espressa su niente – nemmeno quando la Rai non riusciva a liberarsi di Carlo Fuortes, l’ex ad che s’era incatenato alla poltrona – anche la dottoressa Soldi oggi ha deciso di parlare di se stessa: “Sono stati anni difficili. E io sono stata al mio posto nella convinzione di dover portare a compimento un lavoro”. 


Come tutti qui a Sanremo, incline all’autobiografismo, la presidente della Rai ha parlato di se stessa con tale vigore e convinzione che sembrava Giulio Cesare nel “De bello Gallico”, con la sola differenza che Soldi non parlava (ancora) di sé in terza persona ma leggeva degli appunti da un iPhone con cover rossa. Modello Elly, anzi Ella, cioè Schlein, la segretaria del Pd che quando interviene alla Camera e dice ai suoi deputati: “Noi siamo…” finisce che subito guarda gli appunti, perché si vede che sa di essere qualche cosa, ma non sa esattamente che cosa. Finito di leggere gli appunti autobiografici, la presidente Soldi si è poi ritirata all’Hotel Nazionale, proprio accanto al Casinò, non lontano dall’Hotel Globo dove dormono anche gli altri due pesi massimi della Rai, il direttore generale, Giampaolo Rossi, e l’amministratore delegato Roberto Sergio. Il quale, imbottito di paracetamolo, è arrivato lunedì sera e ha deciso di  restare per tutta la settimana a Sanremo malgrado i postumi dell’influenza: “Apro qui il mio ufficio”. A riprova che la Rai s’è interamente trasferita in questo paesone intasato di romani come piselli in scatola. Chissà se lo si incontrerà, il dottor Sergio,  anche a una delle tante feste che ogni sera intrattengono giornalisti, dipendenti Rai, sponsor, discografici, scrocconi e imbucati vari che sono alla fine – crediamo noi – il motivo principale per il quale qui a Sanremo si sono accreditati più di mille giornalisti. Campari gratis per tutti (o quasi). Compresi i cinquanta giornalisti della stampa estera: Le Monde, Die Zeit, Bbc... “how do you say mettimi in lista?”.  L’attività più intensa, e complicata, è infatti quella di farsi mettere in lista, cioè farsi invitare, per entrare al party di Radio Italia, al karaoke di Alessandra Amoroso, alla festa di Rolling Stones o a quella di Vanity Fair (dalle 22 alle 2 del mattino). D’altra parte soltanto Jannik Sinner poteva dire: “Non vado a Sanremo perché devo lavorare”, probabilmente la frase meno italiana mai pronunciata nella storia della lingua di Dante e Manzoni. Alle feste delle radio e delle riviste più importanti, in questi locali minuscoli di Sanremo la cui mobilia un arredatore la definirebbe “tardo orrido”,  ci sono i cantanti in gara. Quasi tutti. Quasi sempre. Ci vanno per contratto, pagati.  E allora ecco Ghali, il rapper, che arriva accompagnato da un tizio travestito da ippopotamo o forse da tricheco (“si chiama Ricciolino”), ecco Irama con una pelliccia di vero similpelo cento per cento made in China, ecco poi Renga, Nek, Annalisa, il Volo, Emma, più una serie di famosissimi sconosciuti con zeppe ai piedi, capelli verdi, catene, metalli vari, gente che con tutti i pezzi montati somiglia a qualcosa che il museo delle cere di Madame Tussauds rimanderebbe indietro. Ne abbiamo visto uno che tagliava una torta di panna a sei piani con la cresta verde dei capelli.

 

I cantanti si conoscono tutti e tutti sanno perfettamente quello che fa l’altro. Tuttavia il tipo di discorso (o di saluto) che si scambiano è sempre autobiografico (a proposito di festival dell’Io e del Me), insomma commerciale, e di tipo esibizionistico. Lo si annuncia all’amico a voce alta perché lo sappiano gli altri: “Hai firmato?” (il contratto). “Sì, proprio stasera”. Ah, sono contento. “Grazie”. Prego. Seguono abbracci, buffetti, carezze, pugnetti e gomitate. La cantante lascia intravedere mezzo seno sotto le paillettes; il direttore d’orchestra rock, invece, per far capire che è un direttore d’orchestra rock, si traveste da bambino dei primi anni del secolo (completino di velluto rosso cupo o blu: anelli, mantelli, collane, orecchini...). E’ un genere di vita tutto impostato sul calcolo dei minuti, tanto di conversazione, tanto di occhiate, tanto di selfie concessi, tanto di  saluti, e poi via verso un’altra festa dove si ricomincia daccapo. Ci vuole un fisico bestiale, cantava Luca Carboni. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.