Massimo Giletti conduce "Non è l'Arena" da Mosca (Ansa) 

spazio okkupato

Omologazione e ascolti in calo. I mostri ospiti dei talk-show generano mostri

Giacomo Papi

Intendiamoci: in latino il "monstrum" è qualcuno o qualcosa di prodigioso, impossibile da non guardare. Per questo è sempre servito a tenere il pubblico incollato allo schermo. Ma cosa succede quando li ritrovi ovunque? Il risultato finisce per essere opposto

Continuo a incontrare persone che si domandano perché in Italia i talk-show siano così affollati di “mostri” (la parola va qui intesa alla latina, come monstrum, cioè come qualcuno o qualcosa impossibile da non guardare, come “prodigio” che per sua natura si mostra). Te lo chiedono con disagio sincero e gli occhi sgranati dallo stupore, senza rendersi conto di essere parte della risposta. I “mostri” vengono invitati nei talk-show perché fanno più ascolti, e fanno più ascolti perché vengono guardati e commentati anche da chi li detesta. E’ un meccanismo umano, molto più antico della tv, che è all’opera anche per strada, nei bar, nei circhi e sui social: due che litigano sul marciapiede, un ubriaco che racconta al bar di avere incontrato gli alieni, la donna barbuta o un tweet contro le scemenze dette da un tizio in tv ricevono sempre più attenzioni di chi dice o fa cose normali. E non è un fenomeno nuovo neppure per la tv. La televisione italiana è sempre stata affollata di “mostri”: dall’ascaro Andalù che serviva il cacciatore-zoologo Angelo Lombardi nel programma degli anni Cinquanta “L’amico degli animali” (andate a rivederlo su YouTube o su RaiPlay) fino alle liti del “Maurizio Costanzo Show” e alle zuffe da Michele Santoro, gli ascolti televisivi sono sempre stati gonfiati mostrando al pubblico tipi strambi ed esagitati che si azzuffano, insultano oppure sostengono teorie assurde. E’ un metodo che nei decenni si è allargato dal varietà all’attualità e alla politica, per proliferare negli ultimi due anni di pandemia e guerra fino a travolgere il confine tra giornalismo e spettacolo, rendendoli programmaticamente indistinguibili.

La prima ragione di questa proliferazione è tecnica: nel terrore che gli spettatori possano distrarsi e cambiare canale, il numero degli ospiti di ogni talk-show è aumentato esponenzialmente, e di conseguenza è cresciuto proporzionalmente anche il numero dei “mostri”, cioè di chi nega la realtà condivisa e racconta, per esempio, che il Covid è soltanto un’influenza, i vaccini sono strumenti per asservire le masse, i morti di Bucha fantocci di Zelensky oppure che la Russia non ha invaso l’Ucraina. Quella che si è innescata è una gara che, di fatto, rende i talk-show giornalistici sempre più simili tra loro, nel ritmo, nei contenuti e nella scelta degli ospiti, che si ritrovano a girovagare di canale in canale, e che le reti si strappano l’una con l’altra, alzandogli compensi e pretendendo esclusive, perché in tv – è un’altra legge evidentemente non conosciuta quanto dovrebbe – le facce note funzionano sempre meglio di quelle sconosciute (a meno, appunto, che non si tratti di facce “mostruose”, cioè di personaggi così strani o scandalosi che, per chi guarda, è impossibile distogliere lo sguardo). Il risultato paradossale di questa battaglia è che gli ascolti dei talk-show, nonostante “i mostri”, si stanno livellando in basso perché si spartiscono lo stesso pubblico. E’ possibile anche, però, che una massa di telespettatori, non riconoscendosi più nella realtà messa in scena e nel dibattito, abbia abbandonato la tv per informarsi altrove o non informarsi più. 

E’ l’interesse pubblicitario, non quello pubblico, a determinare la sovra-rappresentazione delle posizioni marginali. E l’esibizione continua regala credibilità e autorevolezza, cioè un seguito politico, a chi altrimenti non potrebbe averne. In questo modo il quadro democratico è falsato. Non era l’unico esito possibile, ovviamente. La scelta che editori, conduttori e autori compiono – consapevolmente – per difendere gli ascolti mentre dichiarano, in alcuni casi con sincerità, di difendere il pluralismo dell’informazione, ha un effetto che è l’esatto contrario del pluralismo. Perché conduce alla totale omologazione dei programmi e questo nega alla radice il diritto di scegliere, lasciando a molti spettatori soltanto l’opzione tra rifiutare la tv o sfogarsi sui social, accrescendo ulteriormente la visibilità di quelli contro cui ci si sfoga. Il paradosso finale del meccanismo perverso in cui ci siamo infilati, è che in questo modo chi ogni sera può recitare la parte della “voce fuori dal coro” in tv può gridare alla censura e alla dittatura del pensiero unico, e fare la vittima aumentando ancora di più la propria presa su una parte del pubblico.

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