Ricetta seriale

Baby Reindeer: una storia per raccontare la complessità degli esseri umani

La miniserie autobiografica in sette episodi, firmata dall'attore e drammaturgo Richard Gadd e disponibile su Netflix, scava a fondo nella psicologia dei suoi personaggi. Perché guardarla

Gaia Montanaro

È arrivata in sordina Baby Reindeer, miniserie autobiografica in sette episodi da mezz’ora disponibile su Netflix, dall’anima british fino al midollo e, ad oggi, la serie più vista sulla piattaforma streaming. La piccola renna del titolo è il soprannome dato a Donny, ragazzo che lavora come barista ma ha il sogno di diventare un comico. Ha perseguito questa strada con diversi tentativi che però non hanno fino a quel momento dato i frutti sperati. Nella sua vita entra casualmente Martha, una donna un po’ più grande di lui che si siede al bancone del bar apparentemente turbata. Donny le offre un tea – come gesto di gentilezza – e da lì comincia una storia di abusi e violenze. Martha, infatti, diventa la stalker del ragazzo, lo perseguita mandandogli centinaia di mail al giorno e braccandolo nei suoi spostamenti. Inizialmente Donny minimizza, lascia uno spazio perché Martha prenda piede fino a quando la situazione diventa morbosa e insostenibile. Donny, nella scena di apertura, si reca al commissariato locale per denunciare la ragazza ma non appare così facile dimostrare che è vittima di stalking (in questo gioca un ruolo anche “l’anomalia culturale” che sia un uomo a subire questo tipo di persecuzioni e non viceversa).

Da qui parte una storia – una sorta di lungo flashback che dura fino a metà serie - che si fa, puntata dopo puntata, sempre più psicologicamente stratificata e approfondita. Si indaga nel passato di Donny, il cui bisogno primario è quello di essere visto, considerato e apprezzato, si racconta degli abusi da lui subiti, dei suoi sentimenti inizialmente ambivalenti verso Martha e della linea sottilissima che permette di creare empatia con il proprio carnefice. Uno scavo psicologico in cui i personaggi sono considerati nelle loro sfumature, nelle pieghe emotive che li caratterizzano. Baby Reindeer racconta della complessità di cui sono fatti gli esseri umani, partendo da una storia piccola e molto perimetrata che però nasconde dietro di sé verità emotive molto più grandi. Ha la forza narrativa dei racconti dalla spiccata matrice personale (la serie è creata, scritta e interpretata da Richard Gadd, attore e drammaturgo inglese vittima di stalking per diversi anni). È un racconto perturbante, che in un certo senso taglia le gambe in certi passaggi estremamente crudi per la loro spietatezza emotiva. Donny ci mette a parte dei tentativi di gestire il caos, di contingentare il dolore che gli si riversa addosso e di come questo dolore insista su delle ferite del passato che gli fanno da cassa di risonanza. È una serie sfidante, Baby Reeindeer. Forse con qualche esasperazione eccessiva ma che ha il pregio, per uno spettatore adulto e attrezzato emotivamente, di non fare sconti. Di non ridurre la complessità, anzi. Di mostrarla in tutta la sua più interessante e vera contraddizione.

La serie, nata come uno spettacolo teatrale dal nome Monkey See Monkey Do scritto dallo stesso Gadd e che ha vinto il Fringe di Edimburgo nel 2017, è scritta e interpretata dallo stesso Gadd insieme a Jessica Gunning, diretta (in modo molto peculiare) da Weronika Tofilska e Josephine Bornebusch e prodotta dalla Clerkenwell Films.
 

Qual è il tono di Baby Reindeer in tre battute?

“Riniziai a provare quell’empatia che mi sveva fatto finire lì”.

“Mi faceva pena. Fu quella la prima sensazione che provai”.

“Martha mi vedeva come volevo essere visto”.

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