Foto Cecilia Fabiano/LaPresse

il foglio del weekend

Chiacchiere invecchiate in tv

Andrea Minuz

Il silenzio di Draghi ha spiazzato i talk-show. Il dibattito si sposta verso la formula Virologi & Vaccini. O verso il trash. L’effetto nostalgia per “Conte Illimani” e Beppe Grillo che vuole il ritorno a Tribuna politica. Aridateci Jader Jacobelli

Fa le stesse cose che faceva Conteeeeeee!” urla a squarciagola Mario Giordano aprendo la puntata di “Fuori dal coro”, mentre fa roteare una parata di gigantografie girevoli con le facce dei due premier, vecchio e nuovo. “Conte on my mind” canta tutte le sere Marco Travaglio a “Otto e mezzo”, come un vecchio crooner mollato dalla fidanzata, l’occhio lucido, la bottiglia di bourbon semivuota sopra il pianoforte. Ma ecco che a rincuorarlo arriva puntuale da Floris il sondaggio di Nando Pagnoncelli: “Giuseppe Conte resta il più apprezzato dei leader per il 61 per cento degli italiani”. Scende una lacrima. A una settimana dalla prima conferenza stampa, sappiamo finalmente che Draghi ha copiato da Conte, Draghi parla in ritardo come Conte, il Decreto Sostegni è copiato dal Decreto Ristori, anche perché stanno usando tutti i soldi che ha trovato Conte. Nei talk-show va in scena il rimpianto per il “Codice Rocco”, la nostalgia per le interviste fiume, i siparietti da Gruber, Barbara D’Urso, i videomessaggi a “Domenica In”, le dirette Instagram, i proclami, gli annunci, i messaggi continui su Facebook e Twitter. Manca anche la fotogenia assai televisiva del vecchio premier, quell’arcitalianità piaciona, avvocatesca, da bell’aviatore al centro di una torbida trama amorosa a puntate su “Grand Hotel”, con il “Pd interlocutore privilegiato”.

 

Non si fatica certo a comprendere la nostalgia per Conte per chi con Conte ci campava assai bene. C’è tutta una compagnia di giro che non se n’è fatta una ragione. Che si ritrova spiazzata, orfana, abbandonata, già in tenuta da campagna elettorale per la nuova “piattaforma” che sta per nascere intorno al vecchio premier. Guido Vitiello su Twitter li chiama “Conte Illimani”, quasi un’evoluzione sudamericana dei “retequattristi”. Opinionisti ambulanti travolti dalla saudade, poncho, maracas e charango per intonare insieme ogni sera, “El abogado del pueblo”. Nel momento esatto in cui è uscito da Palazzo Chigi, in quella scena assai epica e un po’ fantozziana, tra gli applausi scroscianti dei dipendenti, si è spianata per Conte la strada del rimpianto, del genio incompreso tradito da oscure e vili “manovre di Palazzo”, secondo un groviglio intricato ed equivoco assai tipico del melodramma italiano. Un personaggio già perfetto per una Fiction di RaiUno che prima o poi si farà. Non è vero, infatti, che gli italiani vogliono “l’uomo forte al comando”. Gli italiani sanno bene in cuor loro che con il “deep State” che ci ritroviamo anche volendo nessuno comanda niente. Ed è per questo che vogliono casomai il “fantasista”, il fuoriclasse, quello del colpo di genio imprevisto e improvviso, magari non sempre messo nelle condizioni di esprimersi al meglio per fantasticare su chissà cosa avrebbe fatto se solo avesse potuto. Vogliono Leonardo, Caravaggio, Roberto Baggio, e lo diceva anche Renzi da Formigli: “Se Draghi riscriverà il Recovery Plan? Non mi metto a spiegare a Baggio come si tirano le punizioni”. Così, anche l’ammirazione per Draghi suona smisurata, irrazionale, tutto sommato sconsiderata (la draghimania fa giustamente paura anzitutto a Draghi stesso).

 

  

 

Per un mese ci abbiamo fantasticato su, ma anche ora che ha parlato il “silenzio di Mario Draghi” continua a essere raccontato come il punto di forza del governo, certo più del Recovery plan, della campagna vaccinale, delle scuole ancora chiuse. Una comunicazione silente, austera, ma anche allusiva, ricca di artifici omissivi e strategiche attenuazioni, moderatissima, precisa, cristallina nella lingua. Finalmente! Abbiamo pensato e scritto e detto tutti. “Tutta un’altra cosa” rispetto agli arabeschi imprendibili di prima, all’italiano circonvoluto, notarile ed “emozionale” di Conte (che vanta già una sfilza di massime su Frasicelebri.it, tra cui, “Possono separarci una porta, un balcone, una strada, ma niente e nessuno potrà separare i nostri cuori” e “La Pasqua è il passaggio dalla schiavitù all’Egitto”, di nuovo, ahimè, tornata di stretta attualità). C’è ormai una vasta letteratura su questo “nuovo modello di comunicazione” di Mario Draghi, una teologia negativa che celebra l’assenza, il vuoto, l’ascesi, il “meno”, sintomi inequivocabili di serietà, impegno, autorevolezza, a ribadire infondo il ben noto adagio delle nostre vecchie zie, “chi tanto parla poco fa” (in politica però funziona assai meno: ecco già i primi sondaggi col calo di consensi, subito sbandierati dal Fatto).

 

“Pochissima vita pubblica per Mario Draghi”, scriveva Il Giornale, “impegnato com’è a risolvere i problemi di un paese in ginocchio”. Il non apparire, il non parlare, come il più straordinario degli effetti speciali, indubitabile segno di un “cambio di passo” rispetto alle panze spiaggiate, alla Nutella in cucina, alla corsetta nel parco con tragiche foto-ricordo su Instagram. Draghi salutato come un addio alla politica “pop”, caciarona, “orizzontale”. Draghi come il fantomatico “ritorno della competenza”, che poi vorrebbe dire solo riuscire a provare un filo di soggezione per chi siede a Palazzo Chigi. La politica non può davvero sottrarsi alla televisione, ai post, alle dirette social. Ma nel frattempo la frattura innescata dal silenzio plenitudinario di Draghi ha invecchiato di colpo tutto il mondo della chiacchiera televisiva permanente. Se non ci fossero il Covid, il disastro della campagna vaccinale, il dibattito virologico sulle varianti, non si saprebbe bene che dire tutte le sere. Anche perché la telepolitica “pura”, quella dei nostri talk giornalistici, è ormai risucchiata da Barbara D’Urso e Mara Venier, vetrine settimanali di Ministri, pezzi del governo, comunicati istituzionali, brandelli di opposizione, come Giorgia Meloni, ospite fisso a “Live Non è la D’Urso”, perfettamente integrata nel matriarcato di Mediaset, anzi ottima per un futuro triumvirato, De Filippi-D’Urso-Meloni, altro che “Ciao Maschio” della Di Girolamo o le sottosegretarie del Pd. Il trash decolla, forse anche come unico contraltare al silenzio draghiano.

 

Volano gli ascolti di Barbara D’Urso, mentre la telepolitica pura frana. Andrea Scanzi, ospite di Bianca Berlinguer per difendersi dalle accuse di “caregiver abusivo”, non supera il 4 per cento, annichilito persino da “Ghost” con Demi Moore e il povero Patrick Swayze. E’ un momento di grande transizione e incertezza. Il racconto televisivo della politica è ostaggio dei virologi da un lato, e minacciato dagli omissis della comunicazione di Draghi dall’altro, da uno stile che non pare intenzionato a scendere a patti col pop. Insieme alla saudade per Conte, si sperimentano allora nuove possibilità combinatorie della rissa televisiva. Se i virologi sono ormai personaggi televisivi (con tanto di manager e agenti che li piazzano nei programmi, tipo Beppe Caschetto, che avrà già aperto una “Asl Television 2000”, specializzata in anestesiste carucce e virologi narcisisti), i personaggi televisivi danno ormai consigli su vaccini, dosi, somministrazioni. Dai e dai sono finalmente pronti per confrontarsi alla pari. Mirabella invitava a lavarsi le mani facendoci vedere come si fa, casomai ce lo fossimo dimenticati, ma ormai siamo andati molto avanti. Ospite di Barbara D’Urso, Walter Zenga consiglia all’Italia di comprare il vaccino cinese che ha fatto a Dubai. Cecchi Paone si incazza, “parla di pallone, non di scienza”. Ma soprattutto rinfaccia a Zenga il fatto di omettere che a Dubai i filippini sono trattati molto male, ancora ignaro del trattamento della colf di Laura Boldrini (probabilmente ospite domenica prossima da Barbara D’Urso, o almeno ce lo auguriamo).

 

  

 

Simona Ventura litiga invece con Matteo Bassetti a “CartaBianca”. “Una mia amica mi ha consigliato di iniziare una profilassi fatta di eparina, cortisone e antibiotico”. Bassetti la zittisce subito, e senza neanche una Michela Murgia intorno a multarlo per “mansplaining”: “Faccia la conduttrice, si laurei in Medicina e poi parli”. A difendere Simona Ventura ci pensa però il compagno, Giovanni Terzi, altro maschio, direbbe sempre Murgia, con una lunga lettera pubblicata su Libero: “Il professor Bassetti, plurilaureato come del resto Simona, era lo stesso che un anno fa ostentava sicurezza dichiarando come di coronavirus non si muore”, insomma un bel dibattito tra ragioni della scienza e ragioni della conduzione televisiva da cui viene soprattutto fuori la sempiterna ossessione italiana per la laurea, un chiodo fisso che nel paese col più basso numero di laureati d’Europa, nessun dibattito sulle sorti dell’Università e Di Maio pluriministro, continua a essere tra le più misteriose patologie nazionali. E’ in questo quadro di grande confusione e transizione che si comprendono meglio le “note di regia per i talk-show”, pubblicate la scorsa settimana sul suo blog da Beppe Grillo.

 

Raccontano la paura di essere annullati da una nuova fase della comunicazione politica, e raccontano una singolare sintonia con l’austerity televisiva di Mario Draghi. “No all’intrattenimento di bassa lega”, spiega dunque l’ideatore del “Vaffanculo Day”. Perché ora c’è bisogno di un approccio “etico e riguardoso della persona e della sua immagine anche negli spazi televisivi dedicati alla politica ed ai suoi approfondimenti” scrive Grillo. “Il cittadino ha diritto di essere informato sui contenuti. Non è più tollerabile che il dibattito sui temi che interessano ai cittadini venga svilito da una sorta di competizione al ribasso dove vince chi urla più forte. Non è più accettabile che le immagini dei servizi e degli ospiti in studio vengano svilite con inquadrature spezzettate e artatamente indirizzate”, con quell’“artatamente indirizzate” che si allinea al nuovo corso linguistico. “Non è più ammissibile che l’ospite in trasmissioni televisive (rappresentante politico, esperto, opinionista, ecc.), venga continuamente interrotto quando da altri ospiti, quando dal conduttore, quando dalla pubblicità, che determina il livello del programma fomentando la litigiosità ed immolando il rispetto della persona sull’altare dell’audience”. Grillo chiede quindi che i suoi siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti o “sulle calzature indossate”. Insomma, non si interrompe un’emozione.

 

Grillo si riallaccia alla grande tradizione del pensiero antitelevisivo, ai corsivi di Pasolini, ai pamphlet di Popper, Enzensberger, Pierre Bourdieu. Soprattutto, all’apice dell’imborghesimento parlamentare del Movimento, e dopo un rapporto con la tv che ha attraversato tutte le fasi possibili, dall’iconoclastia radicale alla sovraesposizione, ritira fuori le regole di ingaggio della “Tribuna Politica”. Alla nostalgia per Giuseppe Conte, aggiunge quella per Jader Jacobelli. Le condizioni attuali sono in effetti propizie: niente pubblico in studio, niente applausi, un presidente del Consiglio che non parla o parla poco e non va in tv. Una nuova “Tribuna politica” per una nuova partitocrazia e per rimettersi al passo con la comunicazione austera di Mario Draghi. Come a marcare uno spartiacque netto, chiaro, inequivocabile, tra il trash televisivo e il confronto politico serio, rigoroso, competente, ma sempre coi deputati pescati a strascico su internet. Inquadrature fisse, meditabonde, un linguaggio televisivo da sceneggiato Rai anni Sessanta, con densi monologhi dei parlamentari senza interruzioni. Peccato solo non si possa riprendere a fumare in studio. “Non dobbiamo veicolare le nostre personali interpretazioni dei fatti o la sola interpretazione di una parte”, diceva Jacobelli, “ma veicolare tutte le più significative interpretazioni che dei fatti danno partiti, gruppi, sindacati”.

 

  

 

Memorabile rimane l’incipit dell’esordio televisivo di Togliatti, ospite della “Tribuna” nel 1960: “Voglio chiedere scusa se forse il modo della mia esposizione non sarà forse rispondente ai criteri tecnici di questa trasmissione”, che ricorda un po’ il “devo ancora imparare” del primo discorso di Draghi al Senato). Solo che il problema di un monologo senza stacchi e di un confronto politico rimandato alla televisione degli anni Sessanta è che bisogna saper parlare in italiano, come usava allora. Immaginatevi Dibba, naturalmente in completo scuro e occhiali vintage, che prova a parlare come Fanfani per dieci minuti di seguito. Ecco, dunque, il corso di “public speaking” per i deputati M5S, da seguire in Dad. In attesa della transizione ecologica si punta con gran convincimento su quella linguistica. Sarà un corso tutto su Zoom che, secondo l’ufficio comunicazione del Movimento, avrà l’obiettivo di “migliorare la capacità espositiva e l’efficacia dei discorsi e l’apprendimento delle principali tecniche di base per redigere discorsi efficaci”. Cercando quindi il più possibile di attenuare la voragine tra l’italiano televisivo del popolo e quello della Casta.

 

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