La sinistra non balla il pop

Michele Masneri e Andrea Minuz

Renzi col giubbotto di pelle ad “Amici”, Fassino a “C’è posta per te” in cerca della tata, il risotto di D’Alema e la coppia Zingaretti-D’Urso. Storia breve delle operazioni simpatia in tv che mandano fuori di testa i tradizionalisti

È bastato un tweet, e poi la fugace apparizione di Nicola Zingaretti da Barbara d’Urso, e poi le dimissioni (dovute forse in parte allo stesso tweet), per ritirare fuori la vera bestia nera della sinistra italiana. Che non è la leadership, l’uomo forte, il libero mercato o la ricchezza o le privatizzazioni ma un eterno, insormontabile problema con tutto ciò che è “pop” e fuori orbita rispetto alla tradizione legittima. L’antirenzismo più rabbioso cominciò il giorno esatto in cui Renzi si presentò alla platea di “Amici” vestito da Fonzie. Era il 2013. Siamo sempre lì. Segno che la questione non è davvero mai stata risolta, casomai rimossa, sospesa, messa tra parentesi in attesa di tempi migliori. Chissà. 

AM: Asor Rosa ha tenuto a farci sapere che lui dalla D’Urso non ci sarebbe mai andato, restando però un mistero il perché mai avrebbero dovuto invitarlo. 

MM: Però che magnifico détournement sentirlo dire, “da Barbara D’Urso, Zingaretti ha negato i problemi del Partito”, come al culmine d’una sofferta relazione congressuale al Palaeur nel ’77.

AM: D’altro canto, non per citarci addosso che non è mai molto chic, ma qui l’avevamo detto in tempi non sospetti: “Inseguiranno Barbara D’Urso”, e così è.

MM: A me lo dici? Guarda che io segnalo “Barbara” a Capalbio da anni, ma nessuno mi ascolta. Barbara d’Urss, come nei meme. E però ora, sdoganata a sinistra, sognerei che invitasse  in trasmissione Zagrebelsky. Il Mark Caltagirone dei costituzionalisti. Appare e scompare. Dopo anni di silenzio è riemerso, molto in allarme per la deriva autoritaria, questa volta di Draghi. Il padre Zagrebelsky gestiva le relazioni della Fiat con l’Unione Sovietica… vecchia famiglia di russi bianchi; sarebbe bello, anche con l’anniversario dell’Avvocato...

AM: Barbara d’Urss ormai da anni ha preso il posto di Maria De Filippi,  entrata nel frattempo nel pantheon dei “rispettabili”, dei “professionisti che fanno bene il loro lavoro”, dei fenomeni “sociologici”. Un guilty pleasure ormai innocuo, anzi ampiamente legittimo. 

MM: Le avevano perfino proposto di dirigere l’Unità, lo ha confessato lei; un altro di quei momenti in cui la sinistra fa come quei registi che dicono: non mi riesce il film drammatico, buttiamoci dunque sulla commedia, come se fosse facile, cosa potrà mai andare male. 

AM: E’ una storia, quella della sinistra centrista e dolorosamente post-ideologica di questi anni, puntellata da folgoranti strappi all’ortodossia entrati tutti nell’immaginario collettivo: il risotto di D’Alema, la tata di Fassino, Renzi e Zingaretti da Maria De Filippi e Barbara D’Urso. E ogni volta polemiche, anamnesi collettive, crisi identitarie, rassegnazioni, nostalgie per le piazze, l’egemonia e il primato morale che fu.  Ma la parabola del fenomeno resta sempre uguale, ogni volta la medesima “escalation”, come un rito catartico che si riproduce identico a sé stesso, dall’arrivo di “Goldrake” sulla Rai (“pericolosa irruzione del magico, dell’irrazionale, di un sistema di valori arcaico nella nostra cultura”, come scriveva allora proprio L’Unità)  alla trash television di oggi. L’algoritmo non sbaglia mai: 1) roba da deficienti; 2) specchio del paese con cui bisogna fare i conti; 3) da sempre patrimonio della sinistra o quasi, arrivandoci in genere trent’anni dopo il pubblico, e spesso esagerando, ingigantendo, sovrainterpretando, mossi ovviamente dal senso di colpa per la mancata comprensione del fenomeno al suo manifestarsi, lanciandosi quindi in un recupero frettoloso e quasi sempre maldestro. Dalla costruzione dell’Autostrada del Sole, osteggiata quale incitamento all’individualismo borghese dell’automobile, all’ostracismo verso la Tv a colori, segno della decadenza dei consumi, i tempi di elaborazione della sinistra seguono sempre percorsi complicati. Come dire, ci sedemmo dalla parte del torto, perché avevamo torto.

MM: Molti contestano che Zingaretti dalla D’Urso fosse non terreo e impacciato ma addirittura disinvolto e divertito. Quasi voglioso di lasciarsi alle spalle le sovrastrutture, le strategie e i malumori, di scappare dal Nazareno, da D’Alema e Bettini, e fuggire in Occidente, verso la tv, il trash, insomma la vita. Tipo fughe da Berlino Est durante la Guerra Fredda.  Il cortocircuito è totale, però, perché la D’Urso si è sempre professata di sinistra.  

AM: Mica solo “di sinistra”. Tranne forse Lorella Cuccarini, di sinistra sono un po’ tutti. Barbara D’Urso lo dice chiaramente: “Votavo per il partito comunista”, anche con un certo orgoglio, col piglio della compagna di sezione che lasciava i volantini porta a porta. “Ero e sono dalla parte del popolo”. Soprattutto del pubblico. Forse, a pensarci bene, la vera “superiorità morale” di Berlinguer è tutta qui: non essere mai andato ospite al “Costanzo Show” o in qualche altro format di Canale 5.

MM: Perché non esisteva ancora. La sinistra aveva con la tv un rapporto spigoloso: si ricorda il Togliatti d’epoca nelle Tribune politiche, che apostrofava con un “ella” rispettoso gli avversari, e il Berlinguer che sbottava: “io non sono un uomo triste”, a Minoli in un Mixer leggendario, nel 1983, peraltro l’anno in cui nasceva “Drive In”, dunque col solito ritardo secolare. 
 
AM: La performance di Zingaretti comunque andrà analizzata con cura, come il massimo sforzo della sinistra italiana degli anni Venti di allestire una giustificazione alle sue sconfitte culturali, prima che elettorali. “Siamo un partito schiavo dello snobismo, dei complessi di superiorità e dei salotti, dobbiamo andare incontro al popolo” dice da “Barbara”. All’improvviso, a Zingaretti gli prende “il desiderio di essere come tutti”. Ed ecco subito, come per mondarsi dall’effetto D’Urso, che si richiede a gran voce un po’ di “Science Po” e Enrico Letta. Ma il tema che si ripresenta intatto e come nuovo a ogni cambio è sempre quello, e cioè più gli vanno incontro, più il “popolo” li schiva, si nasconde, si nega, si fa i fatti suoi. Come quando prese piede quella cosa veramente funesta di “portare Shakespeare a Tor Bella Monaca” e, chissà perché, quelli preferivano il Multiplex sul Raccordo Anulare, o restarsene a casa davanti a Sky.  Però certo anche Zingaretti; dimettersi, aprire una crisi in mezzo alla pandemia, come si diceva una volta…
MM: Con effetto anche surreale, perché mentre si aspettava  la sua confessione dalla D’Urso, si scanalava su Rai Uno dove la cognata  Luisa Ranieri e signora Zingaretti nella vita interpreta la commissaria Lolita Lobosco, della fortunata serie, e indaga  in una Bari corale e locale, piena di inflessioni dialettali e balconi barocchi e lupi di mare e Puglia Film Commission, e però usi e costumi modernissimi e fluidi, e indicazioni di sceneggiatura che paiono infilate all’ultimo (“ma questo è sessismo!”, esclama la commissaria a un certo punto, e sembra di sentire la riunione di dirigenti Rai che dicono: “ahò, mettiamoce er sessismo”). Anche lì, si capisce la immane difficoltà di tener dietro al contemporaneo. 
AM: Non si interrompe un’emozione! 
MM: Già, come si diceva poi nei vari referendum del ’95 per abolire la pubblicità dai canali commerciali - in testa, ovviamente, la sinistra. Il referendum perse col 55 per cento dei voti grazie anche a uno spot strappacuore che mostrava i più grandi successi Mediaset, dai Puffi a Uccelli di rovo ad Alexis Carrington in Dynasty, sulle note di Louis Armstrong, “we have all/the time/in the world”, che potrebbe essere anche il prossimo claim del Pd.  
 
AM: Ma anche, forse per strizzare l’occhio all’elettorato tendente al “sì”, c’era anche Gorbaciov. Da lì in poi, la sinistra è venuta a patti un po’ con tutto, dalle omelie del Papa alle “frecce tricolori” alle navi dei migranti, ma la contaminazione, l’uscita fuori dal presidio culturale garantito è ancora oggi scandalosa e assai difficile da spiegare al di là dei confini italiani. Sta di fatto che la complessa e impossibile legittimazione popolare della sinistra italiana si è giocata tutta dentro Mediaset, tra Maria De Filippi e Barbara D’Urso.

MM: Ecco nel 2005  l’operazione tata, episodio poi divenuto celebre come “la tata di Fassino”, perché l’allora segretario dei Ds (il fatale Pd non era ancora nato), andò a “C’è posta per te” per incontrare la “signora che lavorava per noi”, cioè la suddetta tata, e in questo già c’è tutto l’impaccio della sinistra.
AM: Superato con disinvoltura da “la colf la pago e la chiamo come mi pare”, copyright Cesare Cremonini.
MM: Non si sa perché, Fassino era accoppiato all’attore Claudio Amendola, anche lui lì per ritrovare la sua tata d’infanzia. Amendola, attore romano d’area, doveva servire come sherpa per accompagnare il numero uno dei Ds nell’ade televisivo: ricordiamoci che quindici anni fa “Maria” era ancora una presenza radioattiva e sulfurea  per le coscienze più critiche del centrosinistra, con o senza trattino.  Fassino mentì pietosamente, dicendo di guardarla spesso, “Maria” – e disse anche un po’ la stessa cosa detta oggi da Zingaretti: “Trovo che sia un tratto di normalità partecipare a queste trasmissioni, anzi direi di civiltà”. Il “Corriere” riportò così l’evento: “Fassino affronta la sua prima volta nel varietà con un leggero ritardo sul programma, incedendo un po’ impacciato nello studio flou di Maria De Filippi” (fantastica la dizione “varietà”). La signora che lavorava con, ovvero la tata, emozionata, raccontò dei suoi anni a casa Fassino, del padre del segretario Ds. “C’era molta sintonia tra di loro – spiegò Fassino – perché  era un buongustaio e Elsa un’ottima cuoca”.  
AM: Elsa poteva essere il “segretario donna” del Pd di cui si favoleggia all’indomani della formazione del nuovo governo. Anzi, “la signora che lavora per noi”. Ma certo, chi per primo capì che lo scontro si stava spostando tutto in cucina (e il tempo gli avrebbe dato ragione) fu il “leader Massimo”.

MM: Nel 1997 D’Alema alle prese con la Bicamerale fu protagonista del celebre “risotto”, mandato in onda (registrato) durante una puntata di “Porta a Porta”, in cui il vero D’Alema in studio vedeva sé stesso in questo rvm realizzato da Simona Ercolani, moglie dell’allora portavoce Fabrizio Rondolino, cucinare in favore di telecamera, un po’ candid camera e un po’ no. Anche lì, impaccio, sia sulla pellicola che in studio, con disastrosa entrata in scena di Vissani. Che all’epoca era un po’ il simbolo del cuoco-star costosissimo e aspirazionale (un proto-Cracco,  si era prima della gastrocrazia, non esistevano ancora le fermentazioni e non eravamo tutti esperti di grani antichi). D’Alema Vissani lo chiamava sgranando gli occhioni “maestro”, dunque mandando a ramengo tutta la pretesa operazione simpatia (ma in Rete oggi pare impossibile trovare il filmato, così come quello sempre di D’Alema che due anni dopo andò a cantare insieme a Gianni Morandi nella trasmissione “C’era un ragazzo”). 
AM: Forse, strategicamente, li ha fatti cancellare. 
MM: Però alla fine tutti questi tentativi non si capiva mai se  riuscissero o no: erano sempre un po’ – ma non si diceva ancora, cringe: perché oltre al sommo imbarazzo dei protagonisti, alla perplessità di quel “popolo” che volevano raggiungere, suscitavano poi reazioni indignate nel pubblico “della ditta”. Dopo il duetto con Morandi, Gad Lerner su Repubblica commentò: “Non lo auguriamo a D’ Alema, ma potrebbero scattare gli effetti collaterali di cui restò vittima l’ altro precedente a noi noto, Bettino Craxi, indimenticato ospite di Fabrizio Frizzi nella piazza televisiva di Guardì. La gente lo guardava e pensava: ‘Non gli bastavano i tigì? Pure a I fatti vostri’ ci viene a rompere, quello”. C’è da dire che D’Alema poi si fece prendere un po’ la mano con la cucina, e coi vini, fondando la sua cantina, con quei nomi un po’ da lingerie, il “Nerosé”. E quando qualche anno fa si esibì nella preparazione di una carbonara nello storico locale Settembrini, vicino alla Rai, peccando con gli ingredienti (pare che vi abbia aggiunto tartufi), la rivista Cucina Italiana, più severa di uno Zagrebelsky, sentenziò: “Cos’altro vi aspettavate da uno che è passato dal comunismo all’atlantismo, e che per di più si è messo a produrre pinot nero in Umbria?”. 
AM: La cucina, il personale di servizio, le tate e le colf. La sinistra ha sempre avuto difficoltà a conciliarsi con attività considerate “popolari”.  E adesso pare cimentarsi con l’altro grande format “popolare” che è quello della confessione. Zingaretti va dalla D’Urso per sfogarsi, come Megan da Oprah. Che notoriamente è l’unica persona seguita su Instagram dalla D’Urso. 
MM: Già, anche Zingaretti non sospettava quanto fosse dura la vita “nella ditta”; non aveva googlato.  

AM: Resta, in questa storia della sinistra scritta e riletta dalla pop television, l’anomalia di Renzi, quello che si è spinto più in là di tutti. E ancora oggi l’arcinemico di tutti. Il grembiule di D’Alema era un accessorio d’obbligo. Fassino era vestito come a un matrimonio o a un funerale. Avevano pur sempre l’aria di passare lì per caso, di concedersi dall’alto. Renzi invece voleva sembra proprio uno di “Amici”. E poi la De Filippi di Fassino era quella della nostalgia e del passato che ritorna, tutta roba che a sinistra era stata ampiamente sdoganata da Fazio. “Amici” era invece un cumulo di disvalori, anche se Walter Siti l’aveva già definita “l’unica scuola che funziona in Italia”.

MM: Renzi non era a disagio. Era perfettamente a suo agio. E soprattutto – orrore – sembrava addirittura divertirsi. Questo, alla fine, era davvero troppo.

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