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La tempesta contro Big Tech

Eugenio Cau

In America si aprono indagini dell’Antitrust contro Facebook, Google, Amazon e Apple. Politica e opinione pubblica stanno cambiando. Dove porta l’epoca nuova della tecnologia

Per anni, davanti alla domanda: che fare con i giganti tecnologici?, l’occidente è stato diviso in due. Da una parte gli Stati Uniti, che i giganti tecnologici li hanno fatti nascere e li hanno visti diventare quello che sono grazie a un approccio quasi completamente privo di regole. Dall’altra parte l’Europa, arcigna, che con la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager (e prima di lei con Mario Monti) faceva partire un’inchiesta via l’altra contro Google, Amazon e tutti i loro soci, li costringeva a pagare multe multimiliardarie, approvava leggi a favore della privacy (dunque onerose per le piattaforme) come il GDPR. Gli americani carezzavano, gli europei bastonavano. Ma di recente qualcosa a Washington è cambiato, nella politica e tra l’opinione pubblica – e adesso l’approccio degli Stati Uniti alla regolamentazione, e in particolare alle questioni di Antitrust, potrebbe diventare molto più europeo.

  

Un tempo l’occidente era diviso su Big Tech: l’Europa arcigna, gli Stati Uniti accomodanti. Adesso l’approccio europeo prevale

Potremmo dire che i guai regolatori della Silicon Valley sono cominciati con il techlash, con la grande delusione tecnologica che ha accompagnato lo scandalo Cambridge Analytica. I primi movimenti, tuttavia, sono cominciati mesi fa, quando la regolamentazione delle grandi aziende digitali è diventata argomento di dibattito nelle primarie del Partito democratico. Alcuni candidati, come Elizabeth Warren, hanno proposto piani espliciti per spezzare i monopoli tecnologici, facendo nomi e cognomi (secondo Warren Facebook dovrebbe essere staccato da Instagram e WhatsApp, Apple dall’App Store, e così via). Il tema è diventato così centrale che tutti i candidati si sono dovuti schierare, e in maniera sorprendente tutti si sono detti a favore di una regolamentazione più stretta, che preveda anche l’utilizzo dell’Antitrust (unica eccezione: Cory Booker, il senatore del New Jersey, forse l’ultimo centrista economico puro rimasto in corsa).

  

Dall’altra parte dell’arena politica, anche i repubblicani non erano affatto contenti del trattamento che loro e i loro sostenitori ricevevano sui social network. Qui il problema non è mai stato di modelli di business, ma di presunta censura contro i punti di vista più conservatori. Insomma: tutti dicevano che si andava preparando il clima perfetto per un cambiamento di prospettive sulla regolamentazione della Valley, ma nessuno pensava che sarebbe arrivato così presto.

  

Le notizie sono sostanzialmente due. La prima, diffusa dai giornali nel fine settimana, riguarda il fatto che le agenzie di regolamentazione dell’Amministrazione americana, dopo anni di inerzia, si sono risvegliate e hanno deciso di spartirsi i compiti. Le due agenzie sono il dipartimento di Giustizia e la commissione federale sul Commercio (Federal trade commission, Ftc). Quando si parla di vigilanza sulle aziende private, le competenze delle due rischiano di sovrapporsi, ed è per questo che i funzionari federali si sono messi tutti attorno a un tavolo e hanno deciso: se dovessero sorgere inchieste su Google o su Apple se ne occupa il dipartimento di Giustizia; se dovessero sorgere inchieste su Facebook o su Amazon se ne occupa la Ftc. Per ora non ci sono notizie ufficiali di inchieste attive, ma il fatto stesso che ci sia stata la spartizione dei compiti indica che ci saranno, e la sola idea ha messo in fibrillazione tutta la Valle – e il listino tecnologico Nasdaq, che è in calo da giorni.

  

Nella notte tra lunedì e mercoledì è arrivata inoltre la notizia che il Congresso ha deciso di aprire un’indagine per verificare se le grandi compagnie tecnologiche della Silicon Valley abbiano abusato della loro posizione dominante e abbiano violato le leggi Antitrust. Dell’indagine si occuperà il capo della commissione parlamentare sull’Antitrust, il repubblicano David Cicilline, e l’intento è quello di guardare all’intera industria, non alle singole aziende. La commissione ha il potere di chiamare i ceo a testimoniare e di costringerli nel caso in cui non vogliano farlo.

  

L’indagine del Congresso è pericolosa quanto quella dell’Amministrazione per una ragione: i deputati hanno il potere di cambiare le leggi. Le norme sull’Antitrust negli Stati Uniti sono vecchie di decenni, risalgono a prima che Google&Facebook nascessero, e non si sono mai adeguate alla nuova realtà. Le leggi attuali, infatti, hanno un’unica stella polare: l’Antitrust deve entrare in azione soltanto se aumentano i prezzi per il consumatore finale – e dunque, si è sostenuto finora, perché mai agire contro la Silicon Valley se le aziende tech i loro prodotti li offrono gratis? (Questa teoria è dubbia: se la Nike spende centinaia di milioni di dollari in pubblicità su Google e su Facebook i costi non si scaricano sul prezzo delle scarpe da ginnastica?).

   

Ormai il principale consiglio che i veterani danno agli startupper è: non metterti in concorrenza con Google e Facebook, ti distruggeranno

I sostenitori di una riforma dicono che ci sono altri parametri a cui bisogna guardare per capire che Big Tech è un insieme di monopoli. Per esempio il fatto che le varie aziende digitali sono monopoliste nei loro domini: Google nella ricerca, Facebook nei social, Amazon nell’ecommerce e così via. Questo monopolio potrebbe essere un pericolo per la concorrenza. Quando Instagram ha cominciato a diventare una minaccia per Facebook nel campo dei social network, Mark Zuckerberg ha tirato fuori il libretto degli assegni e ha comprato tutta la baracca. Con il tempo i due fondatori di Instagram si sono dimessi dall’azienda, e Zuck li ha sostituiti con i suoi uomini. Snapchat invece ha resistito alle proposte d’acquisto e ha avuto una sorte infelice: Facebook ha copiato da Snapchat tutte le innovazioni migliori (avete presente le storie di Instagram? Ecco, le ha inventate Snapchat), l’ha resa inoffensiva e adesso l’azienda vivacchia con una crescita anemica. Ormai il miglior consiglio che i veterani della Valle danno ai giovani che vogliono fondare una startup è: fai quello che vuoi, ma non entrare nella “kill zone” di Facebook e Google. Che significa: non metterti in concorrenza con loro, ti divoreranno e risputeranno le tue ossa.

  

Molti economisti ritengono inoltre che il grande patto sociale tra la Silicon Valley e i suoi utenti non sia equilibrato. Google e Facebook offrono servizi gratuiti in cambio di dati personali. Questi dati sono così preziosi che queste aziende sono diventate le più ricche del mondo. Ma davvero qualcosa di così inestimabile come i dati personali può essere dato via in cambio di un servizio mail e qualche like? Forse, sostengono alcuni economisti il cui pensiero è stato riassunto da Jacob M. Schlesinger sul Wall Street Journal, dovrebbero essere Google e Facebook a pagare i loro utenti.

  

Quelle sopra descritte inoltre non sono le uniche attività di vigilanza sulla Valley. La Ftc è in fase avanzata in un’indagine sul caso Cambridge Analytica che potrebbe costare a Facebook una multa da 5 miliardi di dollari. C’è inoltre una causa pendente contro Apple: un gruppo di consumatori ha accusato l’azienda di Cupertino di far aumentare i prezzi in maniera artificiosa impedendo l’acquisto di app e servizi fuori dall’App Store. Apple aveva cercato di far archiviare la causa ma la Corte suprema ha deciso a metà maggio che il procedimento deve continuare perché l’attività di Apple “potrebbe costituire un vademecum per rivenditori monopolisti” (questo l’ha scritto Brett Kavanaugh, il giudice scelto da Donald Trump).

   

Questo non significa che le aziende tecnologiche siano spacciate. Anzitutto, le inchieste sono appena iniziate (in alcuni casi devono ancora cominciare, se lo faranno) e potrebbero volerci anni per tornare a sentirne parlare. Inoltre Big Tech ha i mezzi e la volontà per combattere e contrattaccare. Il Wall Street Journal, per esempio, scrive che Google ha già pronti documenti molto chiari sul perché il suo dominio del mercato non costituisce monopolio.

  

Ma l’Antitrust non deve necessariamente spezzare le aziende per ottenere risultati. Nel 1998 Microsoft era il più grande campione tecnologico di tutti i tempi. Era quello che Google, Facebook e Apple sono adesso, e regnava incontrastato e temuto. Quell’anno, tuttavia, il governo federale decise di aprire un’indagine Antitrust contro la creatura di Bill Gates. L’intento era di spezzare il monopolio di Microsoft, e da ultimo fallì. Ma la battaglia fra Microsoft e il governo durò 12 lunghissimi anni, durante i quali l’azienda rimase esposta e per lungo tempo paralizzata, con la sua reputazione messa in gioco. Fu sufficiente per consentire a nuovi imprenditori geniali di emergere e di conquistare spazi prima impensabili con le loro nuove aziende. Erano Google, Facebook e Amazon.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.