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San Siro può essere abbattuto. Ma davvero non ha un valore culturale?

Giovanni Battistuzzi

Per la Soprintendenza lo stadio di Milan e Inter “va escluso dalle disposizioni di tutela” in quanto “architettura soggetta a una continua trasformazione”. Proprio come il calcio

Ora è tutta una questione di volumi, o meglio di diritti volumetrici - quelli che servono per edificare qualcosa -, e cubature. E di valutazioni economiche. Tutto ciò che poteva mettersi di traverso a questi calcoli, che ha a che fare con la storia, il passato, la consuetudine e il sentimentalismo, è stato spazzato via oggi. San Siro, o meglio “l'immobile denominato ‘Stadio Giuseppe Meazza (San Siro)’, sito in via dei Piccolomini n. 5”, eccetera, per la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la Città metropolitana di Milano “va escluso dalle disposizioni di tutela”

  

E ciò non vuol dire che San Siro non sia nella storia del calcio, che le sue tribune non siano un luogo iconico del mondo del pallone. Vuol dire soltanto che “non presenta interesse culturale", in quanto “trattasi, allo stato attuale, di manufatto architettonico in cui le persistenze dello stadio originario del 1925-’26 e dell’ampliamento del 1937-’39 risultano del tutto residuali rispetto ai successivi interventi di adeguamento e ampliamento, realizzati nella seconda metà del Novecento e pertanto non sottoposti alle disposizioni [...] del Codice perché non risalenti ad oltre settanta anni”.

 

In pratica se vorranno abbattere la Scala del calcio nessuno si opporrà. Non il Comune, che aveva chiesto questa relazione alla Commissione regionale per il patrimonio culturale della Lombardia; non il ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo, che ha sempre lasciato libero campo d’azione alle soprintendenze; non le due società, che fosse per loro avrebbero già dato via ai lavori per la costruzione del nuovo impianto.

 

San Siro d’altra parte ha seguito l’evoluzione della società, della passione pallonara, ha mutato forma e grandezza, e queste “stratificazioni, adeguamenti e ampliamenti fanno dello stadio – come oggi percepibile nel suo insieme – un’opera connotata dagli interventi del 1953-’55, oltre a quelli del 1989-’90, nonché dalle opere successive al Duemila, ovvero un’architettura soggetta a una continua trasformazione in base alle esigenze legate alla pubblica fruizione e sicurezza e ai diversi adeguamenti normativi propri della destinazione ad arena calcistica e di pubblico spettacolo”.

 

E in questa ultima frase sta il cuore di tutta la faccenda.

 

Quando nel giugno 2006 iniziarono i lavori di abbattimento dell’Arsenal Stadium, per tutti Highbury, la Bbc si soffermò sul volto dolente di George Graham, che la maglia dei Gunners la vestì sei anni e che per nove ne fu allenatore, l’ultimo a vincere una coppa europea (stagione 1993-’94). Lo scozzese disse che “con questo stadio, se ne va una parte di me” e non perché ci fosse “nostalgia o sentimentalismo del passato”, ma perché “il calcio non è altro che un grande spettacolo che ha bisogno di un posto che si possa chiamare casa”. E questo luogo, negli anni, “diventa più di un campo, di quattro tribune e una facciata, diventa una parte della città, un’icona”, al di là del suo valore architettonico o di quello culturale. Graham era consapevole che l’Highbury, monumento dell’art decò inglese, del 1913 non esisteva più, come non esisteva più quello del 1951, ossia quello parzialmente ricostruito dopo le bombe tedesche della Seconda guerra mondiale. “Ma cos’è uno stadio se non una struttura che assorbe i cambiamenti del mondo e si adegua a questi?”.

 

L’Arsenal ora gioca all’Emirates Stadium e in grandezza e in comodità c’hanno guadagnato tutti, spettatori compresi. Il Milan e l’Inter potrebbero fare a breve lo stesso. E sarà la stessa cosa se ne “Gli Anelli di Milano” o ne “La Cattedrale”, ossia i nomi dei due progetti rimasti in gara, quello di Manica/Sportium e quello di Populous.

 

San Siro sarà sostituito senza problemi e chi adesso è disposto a incatenarsi alle inferriate per impedire il suo abbattimento, un domani, passato il magone, tornerà in tribuna. Come al nuovo stadio passeranno i turisti – a oggi non c’è stadio di nuova costruzione che non abbia incrementato il numero di visitatori rispetto a quello precedente –, incuriositi, a dispetto di tutto, dalla novità e dal proscenio calcistico di due tra le squadre più famose al mondo. Quello che mancherà sarà il colpo d’occhio, la possibilità di riconoscere subito e immediatamente, anche a persone calcisticamente semianalfabete, dove si è e cosa si ha di fronte.

 

Nel 2014, la facoltà di psicologia di Cambridge fece uno studio sulla percezione dell’iconicità dei luoghi. Tra le sezioni di questa ricerca, c’era quella dedicata allo sport. I risultati evidenziarono che prima di fissarsi nell’immaginario condiviso, un edificio sportivo aveva bisogno di almeno trent’anni e almeno una storia da raccontare. La maggior parte delle persone che avevano fatto i test, non era stata in grado di collocare geograficamente (in uno stato) né il nuovo Wembley (costruito nel 2007) né l’Allianz Arena di Monaco (2005), né la quasi totalità dei nuovi stadi o palazzetti. Eppure l’84 per cento di loro li aveva preferiti esteticamente al predecessore.

 

Aspettando di sapere il successore del Meazza, di San Siro potrebbe rimanere una tribuna, forse il perimetro, immerso e confuso in uno spazio verde, che i nuovi progettisti vorrebbero per tutti, per la comunità, come in questi anni è necessario dire per avviare qualsiasi progetto. Un progetto che ridisegnerà la zona, perché lì e non altrove dovrà per forza nascere lo stadio: questione di ampiezza, servizi (metropolitana) e vie di accesso.

 

 

Ora è questione di conti e diritti. Solo qualche giorno fa il sindaco di Milano, Beppe Sala, aveva sottolineato che “a me il progetto adesso piace di più, ancora non siamo arrivati a una sintesi, perché il tema di discussione sono i diritti volumetrici. È chiaro che le squadre non fanno lo stadio solo per la struttura in sé altrimenti non rientrerebbero dall'investimento, ma vogliono fare altro. C'è una discussione aperta”. 

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