I giocatori dello Shakhtar Donetsk posano davanti alla macchina fotografica prima della partita col Manchester City in Champions League nel novembre del 2018 (foto LaPresse)

L'identità perduta dello Shakhtar Donetsk

Emmanuele Michela

Dopo il magico 2009 il club dei Minatori ucraini ha dovuto cambiare stadio, affrontando i problemi che hanno attraversato il paese negli scorsi anni. Ora prova a rialzarsi 

C’è un abisso di dieci anni al di là del quale ogni tifoso dello Shakhtar Donetsk vorrebbe tornare. E non è un rimpianto per nostalgici o narcisisti: perché l’anno 2009 è stato certamente il più brillante della storia del club dei Minatori ucraini, oggi ancora ai vertici del pallone europeo, seppur con fiacchezza e poca prospettiva, quella che può lasciare una guerra terribile che da troppo tempo li tiene lontano da casa. Dieci anni fa non era così, anzi. Era l’anno in cui si poteva perdere la testa per Luiz Adriano e Willian, per il capitano Srna o per il piede divino di Fernandinho, dietro a quella faccia brusca di Mircea Lucescu, che era un profeta del pallone ancor prima che crollasse il Muro e si trovava a guidare un pulmino di brasiliani con la cicca in bocca. L’anno in cui tutta Europa si accorse dell’esplosione calcistica della squadra arancionera, culminata col successo in Europa League ai danni del Werder Brema, raggiunta dopo aver eliminato in semifinale proprio loro, la Dinamo Kiev. Ma pure l’anno in cui la geopolitica del calcio s’accorse fino in fondo quale era la strapotenza economica del club e del suo presidente Akhmetov, celebrata dall’inaugurazione di un nuovo stadio, la Donbass Arena, un gioiellino destinato ad entrare poi nel circolo degli impianti dell’Europeo 2012.

 

Oggi, di tutto ciò, allo Shakhtar è rimasto poco. Non certo lo stadio, abbandonato da almeno cinque stagioni a causa del conflitto che ha rabbuiato i cieli del Donbass. Nell’autunno del 2014 fu colpito due volte, ma il club se ne era andato da lì ormai da un pezzo. Meglio giocare altrove: finì a Lviv, nello stadio che era stato inaugurato per gli Europei e regalato al Karpaty, che però vi aveva giocato poche gare e si era accorto che portava sfiga. Due anni passarono lì i Minatori, quanto bastò per perdere due titoli nazionali, finché non scelsero di trasferirsi a Kharkiv, 300 km più a nord di Donetsk, una “passeggiata” in confronto alle quasi 12 ore di macchina che sarebbero servite per raggiungere Lviv. Ma sono lunghezze di viaggio che interessano poco: il club ormai da tempo ospita i giocatori e si allena a Kiev, nel centro del Paese. La scelta di spostarsi a Kharkiv, quanto meno, ha potuto venire incontro ai quasi 200mila sfollati (e potenziali tifosi) che dal Donbass si sono spostati in questa città.

 

Insomma, lo Shakhtar è un migrante del pallone che da casa manca ormai da troppo tempo, una squadra errante che a vederla al vertice del campionato ucraino e ai gironi di Champions ci si stupisce. Ed è un club che porta sulla sua pelle gli strattoni violenti di una contesa dove vorrebbe centrare poco, ma vi si trova dentro anima e corpo: la BBC è stata, solo due settimane fa, alla Donbass Arena, trovandola ancora danneggiata. Al suo interno, semmai, sono stipate derrate di cibo e medicinali, quelli dell’associazione umanitaria di Akhmetov, che però qui attorno è sempre meno apprezzato, perfino “rinnegato” per la sua scelta di tenere lo Shakhtar lontano da Donetsk per farlo giocare in zone - Lviv su tutte - più nazionaliste. Nel resto dell’Ucraina, poi, lo Shakhtar non è visto molto bene, perché è appunto un club che rappresenta un’area dalle forti spinte indipendentiste. Come dimostra la vicenda dell’ex terzino arancionero Jaroslav Rakytskyi: nato nel Donbass, dopo 9 anni allo Shakhtar è passato lo scorso gennaio allo Zenit San Pietroburgo (la squadra del potere russo per eccellenza, sponsorizzata Gazprom), tirandosi addosso le ire di tifosi e federazione che ha deciso di escluderlo dalla Nazionale.

 

Eppure, nonostante le ferite e la distanza da Donetsk, nonostante i pochi tifosi che riescono a seguire il club (in campionato quest’anno non hanno mai superato i 9mila tifosi, schizzati a 35mila per il big match di Champions contro il Man City), lo Shakhtar continua a lottare in cerca della sua identità. La squadra ha cambiato ancora allenatore (Fonseca è andato alla Roma, sostituito da Luis Castro), ma non ha perso la sua anima a metà tra Ucraina e Brasile, con ben 10 calciatori dal Sudamerica. In campionato è già prima con 10 punti di vantaggio dopo appena 8 gare, in Champions ha esordito perdendo 3-0 contro Guardiola e ora attende l’Atalanta. Forse è presto per dirlo, ma lo Shakhtar rischia di andare incontro all’ennesima stagione straordinariamente vincente in casa ma dannatamente anonima in Europa. Il contrario di quel che accadde 10 anni fa, quando avevano pure una nuova casa. Uno stadio nuovo di zecca, che a dire il vero mai era piaciuto ai tifosi. Oggi basterebbe che il club vi tornasse a giocare per farlo diventare un po’ più amato. 

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