"Le streghe di Eastwick" è un film del 1987 diretto da George Miller con Jack Nicholson, Cher, Susan Sarandon e Michelle Pfeiffer (Wikipedia)

Dieci anni dopo le streghe sono tornate e hanno ucciso il maschio

Simonetta Sciandivasci

Tremate. Il decennio che sta per iniziare è il primo dell’epoca post #metoo. Per le neofemministe l’unico uomo da salvare è la brava persona, un gattino che ritrae gli artigli e vive per essere accarezzato

Non c’è che un modo per essere cittadini al di sopra di ogni sospetto: nascere femmine. Per i maschi la pacchia è finita, e “il garantismo è roba ottocentesca, democristiana”. Il decennio che volge al termine consegna al futuro questa disparità intonsa e intoccabile, facendone il primo grande gap tra donne e uomini in favore delle donne. Il film che più di tutti ha intuito e raccontato lo scavo di questo burrone, Gone Girl di David Fincher, è uscito nel 2014, tre anni prima del #metoo, che quella disparità l’ha posta in essere, ratificata, piantata – “il garantismo è roba ottocentesca”, per chi non lo ricordasse, lo disse Asia Argento, nel bel mezzo di quel gelido inverno della ragione che seguì il caso Harvey Weinstein. 

 

“Il garantismo è roba ottocentesca”, per chi non lo ricordasse, lo disse Asia Argento nel mezzo del caso Weinstein

Gone Girl è tratto da un romanzo omonimo di Gillian Flynn e racconta la storia di una donna che, anziché accettare la fine del suo matrimonio, fa in modo che suo marito sia obbligato a rimanerle accanto, usando al meglio le armi che il suo tempo le mette a disposizione: la spettacolarizzazione mediatica, il vittimismo, il prossimo che si fa tribunale, il giustizialismo, l’insospettabilità femminile. Non lo fa per amore, ma per vendetta: rovescia una tirannia per inaugurarne un’altra. A riprova di quanto fosse esatta l’intuizione di Flynn e Fincher, che hanno lavorato insieme alla sceneggiatura del film, e di come non fossimo pronti ad accettarla, Dacia Maraini scrisse che GG era un film “profondamente arcaico e misogino”, che dipingeva il sesso femminile come “pericoloso e incontrollabile”. Mariarosa Mancuso, su questo giornale, evidenziò come, invece, la protagonista Amy avesse il pregio di non essere buona, “un’altra tostissima ragazza sfuggita alle celebrazioni femministe, ché sotto sotto siamo ancora al damsel in disease: un urletto, una smania, e l’attesa per un cavaliere che ti venga a cercare”. Dopo aver fatto credere agli Stati Uniti che suo marito è un femminicida, Amy lo dichiara innocente, salvandone la reputazione, la libertà, tutto: ci riesce quasi esclusivamente grazie all’impunità che il nostro tempo, anche se solo formalmente, ha elargito alle donne. Se per secoli essere femmina è stato indizio e, insieme, prova di colpevolezza, adesso capita il contrario: il maschile è diventato il correlativo oggettivo della sospettabilità. GG ha raccontato questo ribaltamento, incorniciato al chiuso di un matrimonio.

 

Dacia Maraini scrisse che Gone Girl era un film “profondamente arcaico e misogino”. Mariarosa Mancuso era di un’altra idea

A #metoo iniziato, quando sfasciare il patriarcato diventa il comandamento del futuro, il presupposto per l’inizio di una nuova èra nella quale il femminismo si sarebbe fatto arma e garanzia della giustizia sociale universale, e il potere, per essere migliore, non avrebbe potuto che consegnarsi alle donne, il passaggio dal maschile indiziario al femminile indiziario impalca il nuovo assetto dell’intero consesso sociale. Tornano le streghe, nell’immaginario e nell’iconografia, nelle storie, negli sproni, nei modelli, nella militanza politica. Tornano a vendicarsi, loro che di quel capo d’imputazione che a lungo è stato essere semplicemente una donna, hanno pagato il prezzo più alto. “Dalle ceneri io rinvengo e mangio uomini come aria di vento” (Lady Lazarus, Sylvia Plath). Tornano non solo perché torna il femminismo, che nella sua iconografia passata, specie nella seconda ondata, le ha sempre usate per simboleggiare la minaccia alle fondamenta maschili del potere. Tornano perché la stregoneria è diventata una pratica, un culto liberatorio, una setta le cui affiliate si spartiscono più o meno equamente l’onere di correggere il pianeta. Tornano perché le streghe rifiutano il potere vigente e lo combattono con quello occulto. Perché sono impunibili, e fuori da ogni giurisdizione. Tornano perché, quando tutto è incerto, il mondo si consegna nelle mani di chi legge il futuro. 

 

 

Tornano le streghe, nell’immaginario e nell’iconografia, nelle storie, negli sproni, nei modelli, nella militanza politica

La stregoneria è, insieme alla cartomanzia e all’astrologia, una delle nuove religioni che David Brooks, in un editoriale sul New York Times della scorsa estate, indicava essere diventate la risposta del nostro tempo al bisogno di trascendenza, e di fede – un bisogno inesauribile, a dispetto delle pretese e delle illusioni del secolarismo. Il pregio fondamentale dei nuovi culti è la rispettabilità: non essendo in alcun modo legati alle strutture di potere vigenti, come lo sono le religioni tradizionali (prima fra tutte il cristianesimo), non imbarazzano chi li professa. Mentre il fedele cristiano può essere accusato di contiguità con le discriminazioni perpetrate dalla sua chiesa, peraltro sanguinaria, l’affiliato all’astrologia non ha pendenze imbarazzanti. In più, le religioni tradizionali non ammettono individualismo e assoggettano l’intervento del singolo sulla realtà a un progetto elaborato da una forza più grande di lui. Al centro della lettura delle stelle, fino a qualche anno fa bollata come il peggiore residuo dell’oscurantismo medievale e adesso celebrata come “antica sapienza femminile” da riviste patinate tanto quanto da circoli antagonisti femministi, c’è il richiedente, che cerca il modo migliore di controllare la realtà per il proprio vantaggio. Il punto è il dominio, non la ricerca. La verità, non il senso. Questo spiega come sia potuto succedere che la stregoneria sia diventata, negli ultimi anni, una forma di lotta politica – tenendo fermo il fatto che essa è una pratica, non una fede, e questo la rende immediatamente impiegabile nella militanza. Negli Stati Uniti, 13 mila donne hanno dato vita alle Resistance Witches, uno dei più corposi movimenti della galassia che “usa la stregoneria a scopi progressisti”. In una delle loro prime e più eclatanti uscite pubbliche, le RW lanciarono esagoni per la strada contro Brett Kavanaugh, durante il dibattimento al termine del quale fu dichiarato compatibile con la carica di giudice della Corte Suprema affidatagli da Donald Trump, nonostante molte donne lo avessero accusato di molestie e violenze. Una delle organizzatrici del rito contro Kavanaugh disse alla Bbc che i risultati non si sarebbero visti nell’immediato, e che per quanto ne sapeva e aveva visto lei, non c’era motivo di dubitare che avrebbero sortito il loro effetto: per lei, lo scandalo Stormy Daniel, la pornostar con cui Trump avrebbe avuto una relazione, era venuto fuori dopo molte settimane di pratiche misteriche indirizzate a destabilizzare la Casa Bianca. E spiegava: “La stregoneria è sempre stata praticata dai popoli oppressi, che l’hanno usata per sopravvivere e per ottenere la giustizia che le istituzioni negava loro. Adesso, le streghe abbatteranno il patriarcato”.

 

Negli Stati Uniti, 13 mila donne hanno dato vita alle Resistance Witches, uno dei più corposi movimenti della galassia

La strega incarna alla perfezione anche la violazione del canone (comportamentale, etico, sociale, culturale) e, immediatamente dopo, l’impermeabilità a qualsiasi norma di condotta. Si è visto negli ultimi anni con sempre maggiore chiarezza: ciò che è concesso alle donne, non è concesso agli uomini. Perché la donna, anche se strega, anche se minacciosa, anche se crudele, è una figura positiva per procura; quando e se è negativa, invece, non lo è mai in sé, non lo è mai per responsabilità sua, ma sempre e soltanto perché ha subìto una qualche ingiustizia, e anche questo per procura. In quella che Bret Easton Ellis chiama “la cultura del vittimismo competitivo”, che ci spinge a una lotta fratricida a chi è più vittima dell’altro, essere donna costituisce di per sé un bonus: in Gone Girl, sebbene a un certo punto l’impianto accusatorio di Amy cominci a imbarcare acqua, nessuno osa discutere la sua parola, che oltre a essere testimonianza è prova del nove. Quello che, fino all’ultimo, deve difendersi, e che viene scagionato solo grazie alla buona parola di Amy, è suo marito, l’uomo. All’inaffidabilità strutturale imputata arbitrariamente, per secoli, alle donne, il #metoo ha reagito con l’imposizione di un paradigma altrettanto arbitrario: credere alle vittime. Sempre. Senza star troppo a indagare e presupponendo che nessuna s’inventerebbe mai di aver subito qualcosa che non ha subito. Gone Girl, invece, dimostra come la costruzione della vittima sia un processo a cui contribuiscono strumenti precisi, semplici e che attraggono tutti in una competizione, una gara a vincere l’intoccabilità certificandosi come massimamente vulnerabili. Poco prima che “Bianco” venisse pubblicato in Italia, Bret Easton Ellis ha detto a questo giornale: “L’intersezionalità è nata dal desiderio di stabilire chi fosse più vittima di tutti per dargli più voce. Se sei una handicappata transgender latina allora hai diritto a essere più rappresentata dagli altri”. Il femminismo intersezionale è quello dell’ultima ondata, quello del nostro tempo, quello delle nostre streghe, che gli prestano il corpo, l’aspetto inquietante, misterioso e misterico, per allargare e infine distruggere il recinto del naturale, archiviandolo come dicitura discriminatoria. Allora la strega, che ha aspetto e facoltà sovrumani, innaturali, artificiali, si presta non solamente all’acosmismo che sottende il culto della dea madre, la magia bianca, la wicca che rappresentano gli elementi più affascinanti per le giovani donne che se ne sentono rappresentate, ma è anche la figura perfetta per incarnare l’idea di natura, rivista e corretta, che il femminismo ecologista sta impegnandosi a far entrare nel dibattito pubblico sulle sorti del pianeta. Questa idea: la natura non è un costrutto arbitrario dell’uomo, però è un ente mutabile sul quale si può e si deve intervenire, per rinnovarlo, perché lo sviluppo umano lo destina all’obsolescenza (un completo regendering del sapere scientifico, come lo chiamano le xenofemministe, che però ora come ora è in man sbagliate, se non patriarcali certamente legate a uno schema di potere e suddivisione di ruoli e competenze basati sulla differenza sessuale, sul “questo lo fai perché sei maschio e quest’altro lo fai perché sei femmina”). 

 


Le nuove regole sociali dicono che sono le donne a dover correre coi lupi. Spavalde, eroiche, libere. I ragazzi invece devono imparare a scusarsi


 

La donna, anche se strega, anche se minacciosa, anche se crudele, è una figura positiva per procura. Il vittimismo competitivo

Non si tratta di smascherare e mostrarne l’artificio, bensì di desacralizzarlo: “Il nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla è sacro tanto da poter essere riprogettato e trasformato in modo da allargare la nostra prospettiva di libertà”, si legge nel manifesto delle xenofemministe americane. Per loro, in sostanza, le condizioni naturali e la differenza sessuale che da esse discendono, esistono e non sono un dato montato in favore di oppressione e mantenimento dello status quo, ma stanno diventando sempre più oppressivi e incapaci di contenere quello che donne e uomini vogliono diventare. In questo senso, la strega è il riferimento culturale e antropologico perfetto: da Michelet alle favole della Disney abbiamo imparato che è prima di tutto una scienziata, una sapiente che osa, innesta, tenta, ibrida, generava nuove creature, idea pozioni che allargano le possibilità umane, ha bene in mente che tutto ciò che vede non era tutto ciò che esiste, e che dietro il visibile c’è un mondo intero da indagare, rilevare, probabilmente assoggettare o con il quale almeno collaborare. Nel pieno esercizio delle sue funzioni, la strega fa e poi disfa e poi rifà daccapo: accettarla significa fidarsi ciecamente del suo operato. La fiducia cieca nell’operato delle donne è uno dei nostri desiderata, impraticabile ma in fondo condizionante. 

 

 

Per le xenofemministe americane la differenza sessuale esiste ma sta diventando sempre più oppressiva

Il 31 gennaio arriverà su Netflix una serie tv tratta da Luna Nera. Le città perdute, il primo volume della saga di Tiziana Triana (Sonzogno), che racconta la storia di Ade, una giovane levatrice accusata di stregoneria nel non complice e neppure ridente 1600 italiano. Le registe della serie sono tutte donne, così come le sceneggiatrici, e quasi tutto il cast: dettagli felicemente osannati dalla critica. Non includere i maschi è coraggiosa resilienza; non includere le femmine è ignominiosa segregazione. Ma si tratta di operazioni simboliche, destinate a svanire se e quando la parificazione delle opportunità sarà finalmente concreta, dicunt. Chi siamo noi per osare pensare che, fintanto che l’utopia delle utopie e cioè l’uguaglianza (una cosa inesistente persino in natura, per chi crede alla natura: neanche il nostro occhi destro è uguale a quello sinistro) si realizzi al cento per cento, così procedendo, il genere sessuale non diventerà un criterio di accesso lobbistico?

 

Intanto, però, la parità di accesso alle chance professionali, specie nei paesi mediterranei, è piuttosto lontana da venire, nonostante alle donne sia dato dire cose sconvenienti, fare battute scorrette, provocare, fottersene dei buoni sentimenti, fare tutto il necessario, lecito o meno che sia, per prendersi ciò che vogliono e prenderselo subito. Persino le conseguenze della cancel culture sono, per le donne e per gli uomini, lievemente diverse. E’ vero che le università americane e anglosassoni – che in questi ultimi dieci anni non hanno mai smesso di tentare di rimuovere dai programmi Shakespeare e Milton, ritenendoli bianchi privilegiati la cui letteratura ruba spazio e tempo allo studio di quella coloniale, meritevole di una non più rimandabile riscoperta – sono le stesse che hanno chiuso le porte in faccia a Germaine Greer e a tutte le femministe che hanno contestato aspramente il transessualismo temendo che cancellasse lo specifico femminile. Ma è vero anche che se da una parte si vuole rimuovere Shakespeare, ritenendolo tra le altre cose una lettura potenzialmente traumatizzante, si vuole restituire Emily Dickinson alla verità della sua storia, della sua vicenda umana, all’autenticità del suo vissuto personale. Lo scorso novembre, su Apple tv è stata trasmessa una serie dedicata a lei, con il preciso scopo di liberare la sua immagine dalla ripulitura cui venne sottoposta tanto in vita quanto dopo la morte, per offrire ai lettori una figura santificata e sacrale, massimamente presentabile, incorrotta, incorruttibile. Dickinson fu infatti molto diversa dalla morigerata, solitaria poetessa innamorata dei lampioni che ci è stata tramandata: è stata una che fumava oppio, amava violentemente le donne, annegava gattini nella vasca da bagno. E’ stata una cattiva ragazza e, meglio, una ragazza ribelle. L’incitazione alla ribellione è diventata, negli ultimi anni, un filone editoriale parecchio remunerativo: basta con le storie di principesse svenevoli, basta con i principi azzurri, le fatine, il destino incantato, e avanti con le avventuriere, le irregolari, le scienziate, scrittrici, tenniste, first lady, astronaute. Basta vivere in attesa di Venere: che si viva bruciando per Marte. 

 

 

Emily Dickinson fu molto diversa dalla morigerata, solitaria poetessa innamorata dei lampioni che ci è stata tramandata

Apripista di questa rivoluzione controllata è stato il best seller “Storie della Buonanotte per bambine ribelli” di Elena Favilli e Francesca Cavallo, che oltre a esemplificare perfettamente la tendenza educativa di quelli che stanno “dalla parte delle bambine”, infiocchettandone l’emancipazione e somministrandogliela in pillole, marca un’altra fondamentale differenza, forse la più profonda, tra maschile e femminile. Mentre le bambine vanno esortate a spingersi sempre oltre, a infrangere regole, barriere, stereotipi, i bambini vanno disintossicati dalla mascolinità, educati al contenimento della rabbia, dell’aggressività, della protervia e rieducati all’ostensione delle emozioni. Le ragazze devono essere ribelli, le non più ragazze anche – Jane Fonda si fa arrestare quasi ogni venerdì da qualche mese perché manifesta dove non potrebbe contro la disattenzione delle istituzioni verso la cura dell’ambiente. Le donne devono correre coi lupi. Spavalde, eroiche, libere. I ragazzi, invece, devono imparare a scusarsi, a non vergognarsi di piangere, amare, soffrire, tremare. Peggy Orenstein dell’Atlantic ha trascorso gli ultimi due anni a incontrare adolescenti maschi americani: nella lunga inchiesta che ne ha tratto, ha scritto a un certo punto che quasi tutti le hanno parlato delle proprie amiche in termini entusiastici, e che tutti le sono parsi consapevoli dell’importanza di dare a donne e uomini le stesse possibilità. In definitiva, le è sembrato che tutto quello per cui le donne della sua generazione hanno contestato gli uomini, fosse stato quasi sconfitto. I problemi, tuttavia, cominciano quando lei chiede loro come credono debba essere un uomo: “A quel punto, ho cominciato a registrare risposte che mi hanno riportata agli anni Cinquanta: ‘Atletico, forte, robusto, aggressivo, virile, stoico, ricco’”. Secondo la sua analisi, questo risultato si deve a un fatto preciso: mentre alle ragazze s’è badato a fornire un’alternativa non convenzionale ai ruoli stabiliti dalla tradizione, ai ragazzi no: s’è solo provveduto a insegnare loro il rispetto delle donne, e cosa censurare, di loro stessi e degli altri. Nessuno degli intervistati di Orenstein è stato in grado di rispondere alla domanda: “Cosa c’è di bello nell’essere un ragazzo?”.

 

L’uomo dell’anno è Tom Hanks. Il New York Times sul suo film ha scritto: “Questa storia vi aiuterà a sentirvi meglio”

“Gli uomini bianchi non hanno voce”, ha detto Bret Easton Ellis. Forse. Oppure, il microfono viene dato a quelli che risultano rassicuranti, in tutto e per tutto somiglianti ai criteri che il nuovo femminile ha stabilito essere conformi a ciò che intende accettare. La futura guerra (fredda) dei sessi la combatteranno donne streghe e uomini per bene. Il solo maschio accettabile, nel post #metoo, è la brava persona, il gattino che ritira gli artigli e vive per essere accarezzato e fotografato, addomesticato fino all’antropomorfizzazione, capace di rinunciare alla ferinità per un piatto di croccantini garantito a vita. L’uomo dell’anno è Tom Hanks, che si è meritato un lungo editoriale del New York Times, intitolato “Questa storia di Tom Hanks vi aiuterà a sentirvi meglio”, lui che da sempre e sempre di più si fa notare per il buon cuore, la mitezza, le cause sposate (tutte giuste, incontestabili, limpidamente liberal), la gentilezza d’animo, le piccole azioni quotidiane da Amelie nel suo favoloso mondo fatto di dedizione verso il prossimo. La giornalista che ha ritratto Hanks in occasione del suo ultimo film, “A Beautiful Day in the Neighborhood”, uscito il 22 novembre scorso negli Stati Uniti, ha scritto di essere guarita dalla depressione dopo l’incontro con l’attore. Il profilo Instagram che ci ha fatte impazzire, quest’anno, è quello di Fazio Fazio, che nelle prime settimane non ha fatto altro che filmarsi mentre scriveva “Buonanotte” su un bigliettino con una stupenda stilografica, neanche fossimo nell’Età dell’innocenza. Keanu Reeves, il divo non divo che è così una brava persona che non tocca le sue fan neanche quando ci si deve fotografare di fianco, fosse mai che a qualcuna dovesse venire il sospetto che ha approfittato della sua posizione e del suo fascino per sfiorarla illecitamente compromettendone la crescita per sempre, è stato elogiato da tutti i giornali del mondo per la maniera composta ed educata in cui ha reagito agli strali degli odiatori quando è venuto fuori che la donna al suo fianco è molto più anziana di lui. Dopo tre anni “cupi e tristi” di silenzio, Marracash, rapper che aveva fatto di tutto per provocarci e farsi detestare, è tornato con un disco che ha intitolato “Persona” e che con l’omonimo film di Bergman condivide il ripensamento di sé, lo sdoppiamento, il desiderio di non essere come tutti e ritrovare la propria identità autentica: la volontà, ferma e precisa, di svestirsi del personaggio e liberare la persona. L’uomo che il decennio breve degli anni Zero spedisce nel futuro si sveste e poi si riveste come Timothée Chalamet, Ezra Miller, Harry Styles, i venti-trentenni aiutati dalla loro età e dal loro tempo fluido, e che sembrano sempre usciti dalla cabina armadio personale di una fashion blogger. Quelli più anziani di loro ripensano tutto, sempre, non ti toccano neanche per una foto di gruppo, fotografano la cena mentre ti aspettano, come il marito di Virginia Raggi – “anche stasera non ci sei”, è la sua didascalia più frequente agli scatti del tavolo di cucina senza la moglie – cercano maestri di lacrime e di vergogna, mentre noialtre li spolpiamo, e li guardiamo sbagliare perché sappiamo che sbagliano sempre, persino se si scusano, e non li aiutiamo più, perché ormai sono bravi a cadere.