Addio cancel culture
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Roma. Il decennio appena andato – The Terrible Ten l’hanno chiamato gli americani, fenomenali titolisti – lo abbiamo trascorso in buona, troppa parte a ruggire, o a temere i ruggiti degli altri, quelli che non vedevamo in faccia ma di cui sentivamo la voce. Gli hater, i leoni da tastiera, i troll. Ci è parso, sempre di più e sempre più spesso, che la legge del più forte fosse diventata la legge del più hater, di questi qua, e che oltre a essere garanzia di successo mediatico fosse diventata anche il principio di una possibile carta costituzionale mondiale. La cancel culture (sintesi per chi vive in un frigorifero: se sei impresentabile ti cancello) è nata per domare i ruggiti degli hater, le loro indignazioni facili, e dir loro che l’istanza era stata accolta, e avevano ragione se dicevano che Woody Allen era un animale, e quindi era bene che di lui si provasse a non far distribuire i nuovi film e a far dimenticare i vecchi, essendo stati tutti girati con dispendio di sangue di vergini. Abbiamo assistito al vilipendio di registi, comici, scrittori, direttori d’orchestra, geni assoluti, stupefacendoci di quanto numerosi fossero i forconi puntati contro di loro e di come quasi tutti non provassero neanche a reagire e decidessero di scomparire e aspettare che la furia passasse. La furia è passata? Un po'. Ma non conta tanto questo quanto il fatto che ci stiamo rendendo conto di aver fatto male i conti.
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