Una Dickinson inedita: scandalosa per i suoi tempi, esemplare per i nostri

La serie tivù sulla poetessa, contro ogni stereotipo

Simonetta Sciandivasci

Emily Dickinson piaceva molto ad Harold Bloom. Scrisse di lei che era dotata di una “audace gaiezza” e fu per questo che la inserì, unica ragazza, tra i dodici scrittori che secondo lui hanno rappresentato “lo sforzo di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo”. La riconosciamo soprattutto nella parte della trascendenza, perché il racconto di lei è sempre stato quello di una donna rigorosa, solinga, grata, trafitta. Della ragazza lucente, terrena, gioiosa, amante della vita sappiamo poco, non abbiamo praticamente quasi mai sentito parlare. La serie tivù “Dickinson”, presentata in anteprima su Apple TV lo scorso 1° novembre, ci darà la seconda metà della mela. La Emily inedita, festaiola, carnale e persino scomposta, crudele al punto da affogare dei gattini in una vasca da bagno perché credeva fossero troppi, superflui. Un ritratto dell’artista da giovane che vuole risarcire la sua immagine, sottoposta dopo la morte a un’attenta ripulitura per fare di lei la posata, eterea icona di una poetessa che allo scrivere sacrificò il vivere, e che riuscì a penetrare il mondo guardandolo da una casa e dalle sue finestre. E’ un risarcimento corretto: gli storici della letteratura concordano sulla fedeltà della serie televisiva rispetto ai fatti reali. Ed è un risarcimento dovuto, anche, naturalmente, perché Dickinson, diversamente da Susan Sontag, non volle mai che la sua biografia restasse sconosciuta. Citiamo Susan Sontag perché è di questi giorni un dibattito interessante, riportato dall’Atlantic, su come il punto che lei si impegnò a tener fermo, e cioè la distinzione tra la sua vita e le sue opere, il privato vissuto sempre in modo assai discreto di modo che non influenzasse gli altri nella valutazione delle sue opere, sia stato completamente ribaltato, soprattutto ultimamente, facendo di lei la guerriera che fotografò, scrisse, viaggiò nonostante la malattia, anziché – come avrebbe desiderato essere ricordata lei – la fotografa che scrisse e girò il mondo. E’ una delle caratteristiche del nostro tempo: ad accendere il nostro interesse non è l’opera, ma la vita di chi l’ha fatta. Una vita che, se non ci torna, se riteniamo immorale, diventa ragione sufficiente per scaricare l’opera, dimenticarla, detestarla, boicottarla – per usare un’orrida parola in tinta con l’orrore di quest’automatismo tremendo.

 

E’ pure vero, però, che su Dickinson oltre alla ripulitura della sua vicenda biografica, “per fare di lei un’autrice presentabile”, è stata perpetrata anche una correzione dell’opera, già a partire dalla pubblicazione della sua prima raccolta, nel 1890: vennero espunte le frasi astruse, le punteggiature strambe, e tutte le bizzarrie che avrebbero potuto segnalare che in lei vi fosse qualcosa di “storto”, di poco o per nulla convenzionale. E del tutto anticonvenzionale era, invece, Dickinson: urlava, s’incazzava, brigava per i diritti delle donne, fumava l’oppio, amava pazzamente sua cognata. Insomma, per i suoi tempi era una bad girl. E per i nostri? Christopher Benfrey, professore di Letteratura inglese molto esperto di Dickinson, ha detto al New York Times: “Un cartellone di lei a Times Square oggi avrebbe perfettamente senso”. Intende qualcosa di bello ma pericoloso, e cioè che questa Dickinson inedita per i suoi tempi era scandalosa, ma per i nostri è esemplare. Il pericolo è che anche di lei si finisca col fare un’eroina per ragazze ribelli, con tutta l’annessa, inevitabile riduzione a stereotipo (poche cose sono più manualistiche delle cattive ragazze, ormai). Non che niente di tutto ciò avrebbe dovuto fermare questo lavoro e questa operazione culturale nuova e, soprattutto, fedele a un fatto. Guarderemo la serie. E molto probabilmente l’ameremo. E tornerà ancora, e sempre, il brivido che ci dà leggere quei suoi versi incredibili sulla solitudine, i pettirossi, l’amore, le avventure degli altri che a lei furono proibite, il limite, la reclusione. La funzione fa l’uso, ma la poesia no, la poesia fa la poesia e basta.

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