Il trionfo degli incazzati

Sergio Belardinelli

Dopo cinquant’anni di pedagogia civile improntata al risentimento e alla diffidenza nei confronti della decisione politica, l’onestà e tutte le altre virtù sono finalmente andate al potere

Siccome le storie debbono sempre incominciare da qualche parte, quella che sto per raccontare la facciamo iniziare nel 1968, anche se, a rigore, sarebbe potuta incominciare anche prima. “L’immaginazione al potere” recitava uno degli slogan più fortunati e più stupidi di quel periodo. A cinquant’anni di distanza ancora lo si evoca con emozione, dimenticando però che l’immaginazione al potere c’è da sempre e non sempre per nobili fini. Non si conquista, né si conserva il potere senza una buona dose d’immaginazione. Sta di fatto che molti della mia generazione presero questo slogan come un antidoto al potere, come un modo per renderlo giusto e pulito o per liberarsene del tutto. Così, specialmente in Italia, si passò ben presto dal dileggio estetico e intelligente del potere –le pecore portate al pascolo per i viali dell’Università di Roma “La Sapienza” rappresentarono da questo punto di vista un gesto sublime – a una vera e propria guerra contro tutto ciò che rappresentava lo stato, fino a sconfinare nella ben nota tragedia del terrorismo degli anni Settanta. La notte della Repubblica, come la chiamò Sergio Zavoli in una celebre trasmissione televisiva andata in onda tra il 1989 e il 1990. Oggi, per fortuna, quei tempi sono lontanissimi. Eppure risentiamo ancora degli strascichi che hanno lasciato. Mao Tse-Tung, Ho Chi Minh, il generale Giap, Ernesto Che Guevara o l’utopia della Herrschaftsfreiheit (Habermas), della libertà dal potere appunto, sono personaggi e temi sconosciuti per la maggior parte dei nostri studenti universitari; il crollo del Muro di Berlino ha sepolto definitivamente molte delle paccottaglie ideologiche che entusiasmarono i loro genitori; eppure la difficoltà ad accettare il mercato capitalistico, i meccanismi della rappresentanza democratica, le imperfezioni che inevitabilmente contraddistinguono la politica; questa difficoltà permane. Col risultato che il rapporto con la realtà di molti nostri concittadini sembra destinato a rimanere conflittuale, inconciliato, risentito, insoddisfatto, diciamo pure, perennemente incazzato. Naturale dunque che anche il dibattito pubblico ne risenta, accartocciandosi ora sulla contrapposizione ideologica, ora sulla chiacchiera, ora sull’astrazione, rimanendo comunque sempre ostile al pragmatismo e alla decisione politica, e incline invece all’immobilismo e all’accettazione di fondo di uno stato sempre più spendaccione e pervasivo nei confronti della società, ma anche sempre più debole e perfino incapace di far valere il monopolio della forza legittima su tutto il territorio nazionale; uno stato caratterizzato da una divisione incerta dei suoi poteri e sprofondato quasi nella società, dalla quale accoglie le richieste più svariate e irresponsabili, per colonizzarla a sua volta con una miriade di leggi e leggine. Almeno a parole, questo stato non piace a nessuno; tutti ne parlano malissimo; alle sue disastrose inefficienze ci si riferisce sovente per eccitare l’animo degli elettori; ma guai a chi osa provare a cambiarlo.

 

 

Da questo punto di vista resta emblematica la storia di Tangentopoli. Come si ricorderà, essa fece venire a galla, tutte in una volta, la corruzione diffusa, le anomalie e le inefficienze di quella che venne definita la nostra “democrazia per i partiti”. Ma anziché sfruttare il “caso eccezionale” per fare seriamente i conti con se stessa e magari effettuare alcune radicali riforme istituzionali, capaci di arginare in qualche modo il diffuso malcostume e le degenerazioni partitocratiche, la classe dirigente italiana, da quella politica, a quella imprenditoriale, a quella intellettuale, seguì una via diversa, una via per molti versi incredibile e piena d’immaginazione: con l’aiuto assai poco neutrale della magistratura eliminò i “corrotti”, guarda caso coloro che più si erano battuti per una riforma del sistema in favore di una maggiore governabilità (vedi Bettino Craxi), si scoprì all’improvviso tutta liberale, mettendosi addirittura a rivendicare i diritti della società civile contro la vecchia classe politica e contro “Roma ladrona”.

 

Da un punto di vista sociologico, giova forse sottolineare che fu proprio in questo periodo che sulla scena pubblica italiana comparve un nuovo genere televisivo, destinato a diventare uno dei suoi protagonisti principali: il talk-show politico. L’indignazione popolare e l’esibizione della corruzione politica ne diventarono ben presto gli ingredienti principali. Le immagini delle monetine lanciate da una folla inferocita contro Bettino Craxi all’uscita dall’Hotel Raphael, o quelle, trasmesse in diretta, degli altri leader socialisti e democristiani inebetiti dagli interrogatori incalzanti da parte dei magistrati del pool di “mani pulite” segnarono un punto molto importante sulla strada di una nuova pedagogia civile, volta soprattutto a risvegliare la rabbia e l’indignazione popolare. Nel frattempo il palazzo si disponeva ad accogliere gli onesti al seguito della “gioiosa macchina da guerra” allestita da Achille Occhetto. Giustizia stava per essere fatta. L’immaginazione stava per andare al potere.

 

E ci sarebbe andata, se non fosse sopraggiunto all’improvviso un intollerabile guastafeste di nome Silvio Berlusconi. Così la macchina da guerra si sgretolò e alla sua gioia subentrò il risentimento innalzato a presunzione di superiorità morale. La cronaca politica si trasformò in cronaca nera, il dibattito politico in uno scontro tra buoni e cattivi. Una vera e propria “guerra civile condotta con altri mezzi”, l’avrebbe definita MacIntyre. Sui giornali e in televisione prese forma un nuovo tipo di giornalista e di conduttore, il cui unico scopo era quello di suscitare indignazione per le malefatte, spesso soltanto presunte, di una classe politica impresentabile che, sempre in nome della governabilità, osava pretendere addirittura (ancora!) di riformare la “costituzione più bella del mondo”. Per certi giornalisti l’incazzatura divenne una sorta di ascesi. L’incazzatura garbata, ma feroce contro la “casta” doveva servire a suscitare il massimo d’incazzatura nei lettori e nei telespettatori. “Guardate come è ridotta la politica e come è ridotto il nostro paese”, “Noi che siamo così bravi siamo nelle mani di una casta che ci sta mandando in malora”: questo il messaggio martellante che, più o meno direttamente, venne fatto passare per anni.

 

 

Nel frattempo arrivarono Facebook, Twitter, Instagram, cosicché il dileggio e l’inacazzatura trovarono il brodo di coltura ideale per dispiegarsi in tutta la loro potenza. Con meno garbo, ma certamente con più efficacia, visto il carattere apertissimo della rete e la facilità di circolazione di tutto, anche delle fake news. Ciò nonostante, quando arrivò Matteo Renzi, siamo all’ultimo capitolo, in molti ci illudemmo per un attimo che la storia potesse prendere un’altra piega. Ma la rottamazione, la volontà di mettere fine a una dialettica politica improntata alla demonizzazione dell’avversario, la riforma del mercato del lavoro e i primi segnali di ripresa economica crollarono miseramente sotto le macerie dell’esito del referendum sulla riforma costituzionale. Non si tocca la “costituzione più bella del mondo”, meno che mai per rendere più efficace l’azione di governo. Tutti di nuovo incazzati contro l’ignobile fiorentino. Così, dopo cinquant’anni di pedagogia civile improntata al risentimento e alla diffidenza nei confronti della decisione politica, questi incazzati danzano oggi il loro tripudium, sono diventati maggioranza. L’onestà e tutte le altre virtù sono finalmente andate al potere. Fine della storia. Potenza dell’immaginazione.

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