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Da Pif a Flores d'Arcais, ecco gli avanguardisti

Andrea Minuz

Chi sono gli intellettuali “de sinistra” che premono per un accordo senza se e senza ma tra Pd e M5s

A un certo punto ci siamo preoccupati. Dopo le proiezioni al Senato, le analisi del voto, l’Italia spaccata a metà, le richieste di reddito di cittadinanza ai Caf, sentivamo la mancanza di un appello degli intellettuali. Dove sono? Perché non parlano? Cosa dobbiamo fare? Invece, puntuale come un’enciclopedia a rate, anche stavolta arriva l’indicazione dall’alto: né col Pd, né col M5s, ma con tutti e due sì. Facile, chiaro, netto. Così si salva la democrazia. Di là c’è il fascismo, di qua la possibilità di dare vita a “un grande partito della sinistra moderna”, come ha detto Scalfari da Floris, anche se poi ha spiegato che scherzava, ma ormai era troppo tardi e c’era già il videomessaggio di Pif caricato su YouTube. Da due settimane è partita la rivisitazione critica, la piena rivalutazione del M5s, il rimescolarsi di posizioni e di fronti. Ma solo l’appello garantisce una coscienza pulita, scintillante e infallibilmente collocata nel giusto a chiunque sappia ascoltarlo. Con l’ipotesi Cinque stelle la sinistra-sinistra ritrova finalmente le sue parole d’ordine degli anni Settanta, per il resto si danza un po’ tutti insieme sull’orlo dell’abisso: “Ma sai, ti dirò, alla fine questi vaccini, parliamone con la società civile”. In mancanza della firma di Dario Fo, appurato che nessuno ha più l’età per un girotondo intorno alla segreteria del Pd, l’appello si fa un po’ come viene, per frammenti, interviste, esternazioni, sondaggi. Smanioso di sfanculare Renzi e il renzismo, tra i primi a farsi vivo c’è Pif. Si piazza davanti alla telecamera, indossa la felpa col cappuccio perché non è un intellettuale ma un giovane, spigliato rappresentante di un’immaginaria “base” del Pd che non è mai esistita se non in qualche Leopolda e finalmente ci spiega come stanno le cose. Sostiene Pif che siccome c’è stato il patto del Nazareno, siccome il Pd ha governato con Alfano e Denis Verdini, siccome c’è Casini, insomma proprio non si capisce come mai non si appoggi un governo Cinque stelle: “Forse è arrivato il momento di mettere l’orgoglio da parte”, dice. “I punti essenziali in comune si troveranno” ma quel che conta è che “sostenere M5s è un obbligo morale”.

 

Indossa la felpa col cappuccio perché è un giovane, spigliato rappresentante di un’immaginaria “base” del Pd che non è mai esistita

Dal 1993 la cultura della sinistra vive il dramma di sentirsi a disagio nella politica e nell’antipolitica, nelle terrazze e nelle periferie

Il lancio dell’appello non è uno sport per signorine. Tutto si gioca sul rischio di chi scommette sul futuro mentre noi restiamo schiacciati sul presente, di chi vede un bagliore di luce nella nebbia, insegue un’idea, il “sogno di una cosa” o un posto da sottosegretario nel ministero della Meritocrazia. Ma non è il caso di Pif. Non si illuda il lettore di trovarsi di fronte a una “salita sul carro dei vincitori”, né dentro la scia di quell’“incredibile rincorsa del ceto medio riflessivo ai Cinque stelle”, come l’ha definita Paolo Mieli sul Corriere. Magari. Qui siamo in quinta liceo, ultimo banco, assemblea d’istituto, Nike, kefiah e striscione: “Il fascismo non passerà”. Siamo dentro una spinta che rimanda il Pd dove dovrebbe essere, cioè dalle parti del popolo, dell’onestà, del reddito di cittadinanza. Il patto Pd-M5s è una storia che si rinnova, mica un elettorato che si tradisce. Nessun inciucio, grande coalizione, nessun calcolo di numeri tra Camera e Senato. Per Pif, come per la sua insegnante di italiano e storia al liceo, le alleanze di governo si fanno su basi etiche e, va da sé, col M5s c’è l’imbarazzo della scelta. Mentre le Ztl di Roma e Milano votano Pd e affossano l’utopia marxiana (al posto di una classe operaia che doveva diventare borghese c’è una ricca borghesia che è diventata di sinistra, come peraltro c’avevano spiegato benissimo i Vanzina), il Movimento 5 stelle offre a prezzi stracciati la possibilità di una pubblica fustigazione, di un esame di coscienza collettivo, un pentimento, una sfavillante redenzione agli occhi del popolo indignato. Si deve essere proprio scemi, pensa Pif, per non cogliere un’occasione del genere. Intellettuali, professori, opinionisti e Legacoop scoprono con orrore che a votarli è il nemico storico, cioè i loro vicini di casa con terrazza, e allora si compattano lungo l’asse MicroMega-Zagrebelsky-Montanari-Pif. Arriva persino un mezzo endorsement da Confindustria che fa impallidire il patto Molotov-Ribbentrop. Lo scrittore-magistrato Gianrico Carofiglio ci dice che dire no ai Cinque stelle “sulla base di un impulso, che ha anche un elemento irrazionale ed emotivo, è sbagliato. Il compromesso è una categoria politica nobile e importante”. Soprattutto quando si chiama “Patto del Nazareno” o “Partito della nazione”. Ma ormai è troppo tardi. Il patto con Berlusconi non avrà mai il brivido nichilista che trascina con sé l’alleanza Pd-M5s. Col Cav. si evocava la Resistenza. Col M5s si sfodera Machiavelli.

 

Gli intellettuali non sono attratti dal giro d’affari di Rousseau che con i trecento euro al mese che dovranno versare gli eletti incasserà a breve un milione e seicentomila euro. Ma che ce frega. Vuoi mettere con questo voto che è “una rivolta contro le oligarchie del potere”, come dice il Professor Zagrebelsky che secondo Flores D’Arcais potrebbe anzi dovrebbe guidare un governo “che abbia come asse prioritario la legalità e l’uguaglianza”. Aspettiamo la lista dei ministri al Brancaccio e confidiamo in Davigo alla giustizia.

 

MicroMega lancia un numero in cui riscrive sotto il segno del populismo tutta la tradizione politica italiana. Populisti erano la Dc, il Pci, i sindacati, il pubblico impiego, populista era il welfare, il piano Ina-Casa, le baby-pensioni, populista era Pertini, “sempre o quasi sempre schierato con i cittadini e mai o quasi mai con le istituzioni, di cui tuttavia rappresentava il vertice più alto”. D’Alema invece ce lo spiega all’incontrario: “I Cinque stelle non sono populisti, li votano a sinistra, lì c’è un pezzo del nostro mondo”. Non si capisce come mai tutti sappiano cosa vuole un elettore di sinistra ma nessuno riesca mai a darglielo, tanto meno D’Alema che sì, ammette di aver sbagliato a candidarsi ma spiega anche che “non ci si dimette dalle passioni” (a breve, romanzo di Margaret Mazzantini e film di Castellitto a seguire). In alternativa al governo Zagrebelsky, Flores D’Arcais pensa a Tomaso Montanari per “le generazioni successive” (per Pif c’è ancora tempo). C’è tutta una genealogia dell’onestà che scaturirà libera e uguale dall’abbraccio tra la sinistra e il M5s. D’altronde Montanari ci pensa da un po’. Nel 2013, su Repubblica, lui, Barbara Spinelli, Remo Bodei e altri lanciarono “L’appello a Beppe Grillo e al Movimento 5 stelle”: “Avete svegliato in Italia una cittadinanza che vuole essere attiva e contare, non più delegando ai partiti tradizionali le proprie aspirazioni”; il paese cambierà solo “se ci aiuterete ora e subito a liberarci dell’èra Berlusconi”. Per Salvatore Settis, oggi si tratta di ritrovare lo stesso slancio e lo stesso ottimismo che nel 2013 “fu spento da paure, miopie, sospetti, insicurezze”.

All’epoca ci fu anche un altro appello. Si intitolava “Facciamolo!”, lo firmavano tra gli altri Michele Serra, Don Gallo, Jovanotti, Oscar Farinetti, Saviano e Benigni. Anche se non ci si rivolgeva esplicitamente a Grillo, l’idea era pur sempre quella di un patto del Nazareno dal basso. Montanari fu tra i più assidui promotori: “Per metà della mia vita ho vissuto in un paese sfigurato dall’illegalità” (giocandosi tutto su quel verbo, “sfigurare”, che posiziona il lettore dalle parti della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, lasciandogli immaginare un cattivissimo Cav. che come il joker del “Batman” di Tim Burton se ne va a spasso per musei a “sfigurare” opere d’arte). Dice Montanari che “se il Pd o una sua parte pulita vuole evitare l’ignominia e fare qualcosa di utile per il paese deve fare un governo con i Cinque stelle. Sarebbe un gesto di dignità, di senso dello Stato e del bene comune”. Quel formidabile “senso dello Stato” con cui il Pd diventerebbe il paravento a forma di “casta” di tutte le colpe, gli errori e gli imbarazzi di un eventuale governo guidato dal M5s. Se le cose vanno bene, grande vittoria di Di Maio, della cittadinanza attiva, dell’onestà. Se vanno male è colpa dell’establishment, cioè del Pd. Lo streaming con Bersani non ha insegnato nulla. Ma forse Montanari ha in mente un governo M5s-Pd senza Renzi, ma con patto di unità nazionale che se tutto finisce a scatafascio è colpa di Renzi. Di Maio nel frattempo gli offre il ministero delle Cultura. Montanari rifiuta. Vedremo. Barbara Spinelli invece ci riprova con “l’appello della sinistra europea per l’accordo Pd-M5s”. “Il reddito di cittadinanza”, spiega, è “una proposta molto condivisa in Europa”, specie se la sinistra europea riuscisse a dargli la forma di un formidabile abbraccio tra pizza, siesta e pennichella nel circuito Grecia-Italia-Portogallo, tutti insieme onestamente all’ombra del deficit in un fragoroso, entusiastico e mediterraneo, “’sti cazzi”. Altro che “un milione di posti di lavoro”. Se promessa elettorale dev’essere, almeno che sia cucita addosso all’italianità più fiera e indistruttibile.

 

Carofiglio: “Il compromesso è una nobile categoria politica”. Col Cav. si evocava la Resistenza. Col M5s si sfodera Machiavelli

MicroMega riscrive sotto il segno del populismo tutta la tradizione politica italiana. Populisti erano la Dc, il Pci, i sindacati, il welfare

Crollata la terza via, dismessa la Leopolda, l’ipotesi di un’alleanza col M5s è oggi il frutto di una logica implacabile, molto folle sotto il profilo della tattica politica ma comprensibile nella psicologia della sinistra-sinistra. L’alleanza col M5s riporta in scena i fantasmi mai allontanati della purezza e della diversità. Pesca tra i caratteri più antichi, arcaici, marxiani e antisistema della cultura di sinistra, ma aggiornati con le parole d’ordine del M5s, il proporzionale e la ripresa mediatica di una paura del “fascismo”. Almeno dal 1993, la cultura della sinistra vive il dramma assai pirandelliano di sentirsi contemporaneamente a disagio nella politica e nell’antipolitica, nel Palazzo e nei territori, nelle terrazze e nelle periferie, così la tentazione di sprofondare nel nulla, cioè lì dove la condurrebbe un governo con M5s, è sempre stata fortissima. Meglio di tutti la incarna Flores D’Arcais: “Vado orgoglioso di un mio avolo che dissipò l’intero patrimonio familiare dietro una ballerina creola, seguendola sino in Sudamerica. Patrimonio gigantesco (quasi un sesto della Sardegna) accumulato dal primo marchese, insignito del titolo dai Savoia in quanto loro esattore delle tasse”.

 

Così, l’effetto 5 marzo aiuta meglio a capire il dramma politico, morale, storico e culturale della sinistra. Una cultura che si vergogna di Alfano e Verdini ma appoggerebbe il partito di Marinella Pacifico, senatrice a Cinque stelle, maestra di scuola a Latina, antisionista, complottista, fieramente “free vax” (“non abbiamo bisogno di vacini”, dice, “ma di uno stile di vita sano”) è condannata per sempre a essere il freno di qualsiasi ipotesi liberale, riformista, moderna, europea “di sinistra”. Una solida polarizzazione oggi passa proprio da qui: Tra chi si indigna per la politica merda-e-sangue dei tanti Denis Verdini e chi invece la considera innocua rispetto all’orrore dei “free vax” a Palazzo Chigi.

 

Alla fine, bisogna dare ragione a Scalfari, anche se ha detto che “scherzava”, anche se ha spiegato che la sua era solo una “irriverente provocazione”. Scalfari andrebbe preso alla lettera. Come fece Sciascia nella sua interpretazione delle lettere dal carcere di Moro, “assolutamente credibili”, mentre tutti le archiviano come il delirio di un uomo che aveva perso il senno. Come nelle celebre lettera rubata di Poe che è lì sotto i nostri occhi ma fatichiamo a vederla. Quando Scalfari da Floris dice che il “M5s può essere la sinistra moderna” e in molti pensano che poverino sia un po’ andato, non vedono che la parola sbagliata non è “sinistra” ma “moderna”. In una storia politica come quella italiana in cui la parola “sinistra” è stata occupata per tre quarti di secolo dal Pci, una vera sinistra illiberale, cioè profondamente italiana, cioè diffidente verso la modernità, può farla benissimo un movimento che a suo modo ha saputo rileggere i grandi temi di quella tradizione, ovvero la spinta egalitaria (uno vale uno), la lotta alla ricchezza e ai consumi (decrescita felice), un’idea assistenzialista di giustizia sociale (reddito di cittadinanza), il demone della purezza (trasparenza), la questione morale (onestà), e poi via via l’antiamericanismo, il complottismo, l’ecologismo irrazionale, il “km zero”, il culto dei “territori”, della società civile, della società orizzontale, tutto rilanciato dentro un’orbita in cui si può incrociare CasaPound e Potere al popolo. Se il matrimonio tra M5s e sinistra-sinistra non si è consumato subito e ha dovuto attendere l’esito delle elezioni è colpa dei congiuntivi di Di Maio, cioè dell’assenza fragorosa di una componente decisiva di questo discorso, ovvero la “Cultura”, intesa come “culto della cultura” e superiorità culturale della “sinistra”. Ma tra un po’ non ci farà più caso nessuno.