Vaffa all'Italia del vaffa

Antonio Pascale

Ok, guardiamoci negli occhi. Cosa è andato storto in questi anni? Da dove nasce il livore, la rabbia, il malumore nei confronti dei politici, degli immigrati, dei soldi degli altri? Pensieri in libertà su un sentimento diffuso e una voglia di purezza contro la quale vale la pena lottare

C’è chi per molto tempo è andato a dormire presto e poi ha scritto la Ricerca del tempo perduto. E c’è chi, come me, si sveglia molto presto. Non scrivo proprio niente (figuratevi il tempo perduto) e tuttavia, visto che sono le sei di mattina posso almeno camminare sotto una meravigliosa nevicata a larghe falde: casa (Donna Olimpia) ufficio (via XX Settembre). Un’ora e passa di cammino. Sotto l’abbondante nevicata devo, cioè, vorrei proprio pensare a cosa in questi anni è andato storto, in Italia. Come mai siamo così arrabbiati? Questa rabbia, detta in breve, a che serve? Meglio, a chi serve? Comincio a camminare, per ora senza intoppi, con in mente alcune dichiarazioni di voto di cui sono a conoscenza (che a quest’ora, data di pubblicazione, si saranno concretizzate). Allora, un 19enne di buona famiglia, che viaggia tanto per il mondo, anche in posti disastrati, come alcune regioni dell’India o poveri stati africani, un tipo curioso, passionale, e davvero toccato da quello che vede, insomma questo 19enne, tuttavia, ha dichiarato che voterà Salvini. Perché? Perché ci vuole una linea dura contro gli immigrati. Ma i tuoi viaggi? La povertà che hai visto? Di cui parli con passione? La conoscenza approfondita di un paese, delle sue dinamiche interne non ti serve a capire meglio il mondo, i flussi, lo scacchiere geopolitico che cambia e cambierà ancora? E no, sono due cose differenti e dunque: basta clandestini.

  

I romanacci del bar sotto casa che non sopportano la Boldrini perché pare faccia entrare gli immigrati, voteranno Salvini

Un altro 19enne, con la passione per i brand californiani, di quelli che indossano i rapper, 500 euro (se va bene) solo il pantalone di una tuta, fissato con le sneakers, uno capace di dirti, e in prima battuta, quanto costa l’abito che indossi, se è roba da signori o poracci, ecco quest’altro 19enne ha votato Pd. Ma come? L’ex partito operaio, attento ai diritti sindacali. D’accordo, anni addietro Forattini disegnò un Berlinguer imborghesito e imbolsito, in vestaglia intento a sorseggiare un tè sotto un ritratto di Marx, mentre dalla finestra aperta del salotto arrivavano gli echi fastidiosi della manifestazione dei metalmeccanici. Ma si era nel 1977, anche se sono successe tante cose, mica capisco perché il Pd dovrebbe interessare questo 19enne. La risposta è semplice: nelle scorse elezioni il quartiere dei Parioli (molto benestante) ha votato Pd, quindi, per associazione, i ricchi votano Pd e lui vuole essere ricco. Poi ci sono dei 50enni come me, a differenza di me seri professionisti (medici, avvocati), che votano Cinque stelle. Un medico che vota pentastellato proprio non lo capisco, vista la posizione così ambigua sui vaccini, ma la ragione è anche qui molto semplice: votano Di Maio perché stanchi delle casta, stanchi di tutto, stanchi dell’immobilismo, stanchi di Renzi e di Berlusconi (che hanno votato in passato). Ed è vero, c’è tanta ignoranza nei Cinque stelle, errori, incompetenza diffusa, ma lasciamoli provare. Ci sono quelli che, invece, non votano proprio perché stanchi di dare il proprio voto a persone come Di Maio, Berlusconi, Renzi: basta! niente voto! niente assenso! Ci sono ancora quelli che votano Liberi e Uguali non perché appoggiano Grasso ma perché non sopportano Renzi, nemmeno Minniti, e non parliamo della Boschi, per carità. E ci sono quei romanacci del bar sotto casa mia che non sopportano la Boldrini perché pare faccia entrare un sacco di immigrati e dunque voteranno Salvini. Ah, naturalmente ci sono pure io. Voterò Pd. Dài, Gentiloni non è così male e Minniti, poi, ha offerto una risposta di sinistra al problema dell’immigrazione (se mai lo fosse, ’sto problema). E poi soprattutto mi stanno antipatici Grasso, D’Alema e tanti altri, mi ricordano Bertinotti.

  

Il 19enne che vota Pd perché vuole beni di consumo che ora fa fatica a comprare ma che spera di ottenere imitando i ricchi 

Però, quello che vorrei capire durante questa passeggiata mattutina, che tra l’altro spero mi tonifichi e mi rinfranchi lo spirito prima del 5 marzo, non sono le ragioni di alcuni flussi elettorali e altre interessantissime dinamiche, pane per statistici e politologi. No, non sono attratto da questo. Voglio dire, le suddette dichiarazioni di voto sono accomunate da un unico elemento: la rabbia, anzi, meglio, il risentimento. E’ su questa emozione che bisogna indagare. Infatti, è arrabbiato il 19enne amante dei viaggi perché sotto casa sua, ogni mattina, due senegalesi si offrono come spazzini pro tempore. Puliscono le strade e chiedono un contributo: e si danno da fare, spazzano, formano dei mucchietti di foglie proprio al centro del marciapiede (per far vedere che sì la strada è sporca). Ma secondo il 19enne il risultato è solo una messinscena fastidiosa, una pantomima che simboleggia l’inutilità di una certa immigrazione. Inutilità, pericolosità, vedete? Fa pure rima: cose che Salvini da anni mette in piazza. Poi è arrabbiato anche per altri motivi che non mi sono del tutto chiari. Arrabbiato anche il 19enne che vota Pd perché vuole beni di consumo che ora fa fatica a comprare ma che spera di ottenere imitando i ricchi (che, appunto, ai Parioli votano Pd). Poi è incredibile: alcuni tra quelli che votano Liberi e Uguali (sinistra pura e dura) e anche quelli che votano Cinque stelle e anche quelli che non votano, odiano la Boschi perché suo padre avrebbe fatto fallire una banca, perché la Boschi ha i soldi, ha un fratello, perché è bella (pure il fratello), perché ha i boccoli. (segue a pagina due)

  

Sempre nel giusto, sempre lì ad accusare. Grazie alla rabbia ti concentri, riesci a seguire 24 ore su 24 una persona e alla fine una pecca la trovi, poi col ghigno solito e la rabbia come grancassa fai diventare questa pecca una macchia indelebile

Si sfogano con decine di commenti in serie contro la ricchezza. Sono quelli che conoscono a menadito gli stipendi di tutti (parlamentari, manager pubblici e privati, conduttori televisivi, vicini di casa) e anche se, faccio per dire, si dichiarano poco, o per niente, interessati ai soldi (magari sono pure pro decrescita) si capisce senza dubbio che vogliono (eccome!) essere ricchi, belli come la Boschi, e quei boccoli, in un attimo di follia e col parrucchiere giusto, se li farebbero anche loro. Infine, sono arrabbiato anch’io che pure voto uno tranquillo come Gentiloni. Non sopporto le faide interne, i vecchi politici che fondano nuovi partiti. Sono questi i motivi delle scelte politiche? Possibile? Dài… Scelte così complesse si riducono a così poco? Un solo motivo? Nemmeno tanto serio. Ci sarebbe pure una teoria a sostegno: l’euristica della collana di perle. Fa al caso nostro. Cioè di tutte le perle, ovvero le proposte che i politici fanno, io ne prendo solo una, quella a me più vicina, nella speranza che quella tiri le altre. Quindi non valuto, non soppeso tutte le perle a una a una (i punti di un programma), ma prendo quella più emotivamente a me vicina. Capite bene come la rabbia aiuti a focalizzare la scelta: mica lo sopporto l’immigrato sotto casa, il ricco che ha beni di consumo, mica li sopporto i soldi degli altri: infatti, voglio anch’io i soldi che hanno gli altri. A parte che la rabbia è un’emozione fantastica: oltre a farti concentrare su un bersaglio… ti permette, in un attimo, di sentirti superiore a tutti. Sei arrabbiato e acquisti il ghigno sardonico, stile Travaglio. Sempre nel giusto, sempre lì ad accusare. Grazie alla rabbia ti concentri, riesci per esempio a seguire 24 ore su 24 una persona e alla fine una pecca la trovi, poi col ghigno solito e la rabbia come grancassa fai diventare questa pecca una macchia indelebile: e insisti, insisti. Quando sei arrabbiato nessuno ti può giudicare, nemmeno io o voi o tu stesso. Sei superiore, superiore anche alle critiche, hai una posizione di rango elevato: accusatore e mai accusato. Quando sei arrabbiato usi la tecnica del riflettore. Raccontata dal filologo Erich Auerbach, nel suo (fondamentale) libro Mimesis. Tra l’altro un passo molto bello, coraggioso, perché se la prendeva con Voltaire, specialista in questa tecnica. Nella sostanza consiste nell’illuminare ciò che nell’avversario è ridicolo e grottesco e lasciare in ombra il resto, così la verità non nasce dal giusto rapporto tra le parti , tra ombra e luce, diciamo così, ma dall’illuminare solo la parte che dà ragione a noi. Una tecnica che nelle epoche agitate diventa molto potente e inquina il dibattito pubblico. Quando sei arrabbiato, in fondo assomigli a quel reazionario di De Maistre, tendi a dire che l’uomo è caduto, dunque corruttibile, peccatore indefesso, e per questo c’è bisogno di un’autorità – alta, inaccessibile, quasi divina – che ne preservi la purezza o quanto meno controlli il tasso di impurità. Bel guaio, e pratico anche: la tanto desiderata voglia di purezza che la rabbia riesce a tirar fuori nasce dalla sfiducia nel prossimo. Quindi più si frequenta il prossimo, più si dà per scontato che il prossimo tuo è corrotto.

  

Ricordo, nel 2007, Pietro Ichino che criticava un libro curato da Grillo e lo chiamava a un confronto. La risposta il giorno del V-Day. “Quel professorino, Chino… fichino, dovrebbe avere il coraggio di venire in questa piazza e insomma… vaffanculo…”. Questo è l’anno zero? E’ iniziato tutto quel giorno?

Devi gridare la tua superiorità, alzare barriere per proteggerti dalle contaminazioni (e sottoporti allo stesso tempo ai controlli anticontaminazioni che magari ti fanno ancora arrabbiare). La rabbia è antipolitica e quindi non dovrebbe servire a fare politica. E invece. La rabbia, dicevo, è fantastica, oltre che ti senti appunto superiore e tanto forte, cammini con ritmo militare (come me sotto la neve), ma anche il fisico cambia: gli occhi fiammeggiano, le guance arrossiscono, le labbra tremano, i muscoli si gonfiano, diceva Seneca. Anche se il filosofo sosteneva che la rabbia, sì, poteva essere utile sul campo di battaglia ma nelle piazze e dentro al palazzo no, lì no. L’ira poteva creare disagi, litigate e sfoghi di cui poi ti saresti pentito, per questo consigliava di tenere a bada la rabbia. Ma chi ascolta i filosofi? Quando sei arrabbiato sembri Bruce Banner pronto a trasformarsi nell’incredibile Hulk, e non hai scrupoli, un attimo e trovi la forza per fare quello che avresti voluto fare da anni. Guardate cosa succede in quegli amori che si trascinano per anni. Nessuno lascia l’altro, si discute, si piange, si fa l’amore, ci si consuma: non dire una parola che non sia d’amore… no, non è ancora finito. Finché non arriva, appunto, la rabbia: allora, sì, un attimo e finisce tutto, le carezze, i baci, le promesse, i messaggi d’amore scolpiti come segni indelebili nelle falesie: niente più niente al mondo resiste alla rabbia. Tuttavia, a rabbia sfumata, si ricade nell’errore solito. Sì, purtroppo, ed è un guaio, la rabbia agisce sul breve periodo, forma un abito mentale stretto. L’Italia da anni indossa a pennello questo abito: appena il paese si muove un po’ di più si strappa tutto, e ogni brandello prende corpo, e accusa l’altro di aver ceduto.

  

Cammino sotto la neve, in salita, lungo via Fonteiana, e c’è il vuoto attorno a me, il girotondo dei fiocchi sembra il mantello di un prestigiatore, avvolge il mio sguardo. Nevica che è uno spettacolo. Silenzio attorno a me, e pace. Ma allora, per contrasto, mi chiedo: quando è cominciato questo rumore, questa rabbia, questa interferenza di sottofondo. L’anno zero? Sì, mi ricordo che 14 agosto del 2007, Pietro Ichino commentava la pubblicazione del libro Schiavi moderni, a cura di Beppe Grillo: “(il libro) si apre con queste parole: la legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato (…) ha trasformato il lavoro in progetti a tempo determinato… la cosa interessante – continuava Ichino – è che questo libro raccoglie centinaia di testimonianze e proteste contro il lavoro precario delle quali non una sola è imputabile a una situazione generata dalla legge Biagi, sfido Beppe Grillo a un confronto pubblico su questo punto”. L’articolo proseguiva cercando di dimostrare che gli effetti della legge Biagi sulla ingiusta condizione di precariato sono falsamente (e pericolosamente) sopravvalutati. In realtà, affermava Ichino, la legge Biagi ha semmai introdotto una disciplina restrittiva di quei rapporti di lavoro precario e, dall’entrata in vigore della legge Biagi, quei rapporti, lungi dall’aumentare, sono invece diminuiti. La cosa più interessante dell’articolo di Ichino era (dato per scontato che il lavoro precario è per Grillo, per Ichino, per tutti e pure per me, una condizione ingiusta e poco sostenibile) proprio il tentativo di sfidare Grillo a dimostrare tecnicamente e pubblicamente quanto affermava. Di sostituire cioè, la sua verve comica attoriale, generatrice di metafore che gonfiano i nostri petti, con una capacità analitica, magari più fredda ma si sperava più efficace (perché precisa). Ho aspettato per settimane la risposta di Grillo e finalmente il giorno del V-Day, s’era a settembre, al telegiornale ho sentito Grillo affermare che (cito a memoria) “quel professorino, come si chiama, Chino… fichino, dovrebbe avere il coraggio di venire in questa piazza e insomma… vaffanculo…”. Questo è l’anno zero? E’ iniziato tutto quel giorno? Da allora le analisi costi e benefici, le riflessioni accurate, i professori e tutto il resto della litania della ragione sono stati mandati affanculo? Contestazione: che ti sei rammollito? Mica è un convegno universitario. Oh! Si tratta di piazza, comizi, cuori da sostenere, adrenalina che deve scorrere a fiumi. Vuoi dire che Grillo ha introdotto la parolaccia in politica? Come arma elettorale? E i leghisti allora? Il gesto dell’ombrello di Bossi alla socialista Boniver? E poi ti sfugge il senso: il vaffa day serviva a delegittimare (con una pernacchia, un insulto) una classe politica che insultava i cittadini. Chi di spada ferisce, ecc. Va bene, lo so che la piazza estremizza i gesti, tuttavia camminando sotto la neve – che pace, che vuoto, che silenzio e che bella luce – mi convinco, passo dopo passo, che con quel vaffa day si è inaugurato un metodo di lavoro sistematico.

    

Si è cominciato cioè a sostenere che dar sfogo alla rabbia faccia bene alla salute, privata e pubblica. Dunque, più rabbia per tutti, più salute per tutti. Che non è un’idea moderna, anzi. Uno studioso musulmano dell’XI secolo, Ibn Butlan, sosteneva che la rabbia poteva essere usata per rianimare quelli che dopo una malattia apparivano fiacchi, perché magari privi di forza e costretti a letto. E su questa strada il medico Lluís Alcanyís riportava la storia di un dottore che aveva curato un paziente affetto da un’estrema debolezza: si era seduto accanto al suo letto e gli aveva ricordato i torti passati. Ruggero Bacone poi, il Doctor Mirabilis (scienziato, teologo, filosofo, alchimista) era convinto che un rimedio efficace contro l’avvicinarsi della morte fosse la rabbia, evitava il rinsecchimento e il raffreddamento del corpo, tipici della morte, appunto.

  

L’arrabbiato sa tutto, perché è in contatto con l’io più autentico. E l’io più autentico a sua volta è in contatto con la natura più profonda, che dice sempre la verità. Dunque a che serve studiare e conoscere?

E vogliamo parlare del Novecento? Freud: le emozioni represse possono causare una gamma di sintomi fisici e psicologici. Buona intuizione. Tanto è vero che per tutta la seconda parte del secolo passato non sono mancate le famose ventilation therapy. Durante le sedute di gruppo i pazienti venivano incentivati a provocarsi a vicenda. Tempo qualche minuto e cominciavano a dare di matto: da qui iniziava la guarigione, almeno secondo quegli psicoterapeuti. Insomma, la rabbia rompeva il falso sé e certificava l’esistenza di un sé autentico, autenticità che le convenzioni sociali avrebbero occultato sotto una coltre di cenere. La rabbia poteva soffiare via la cenere e riportare il paziente in contatto col proprio io: autentico, romantico, combattivo. Ed eccoci qua, a forza di ventilation therapy de noantri abbiamo creduto che il vaffa ci rendesse vivi, forti, in salute, allontanasse la morte e soprattutto abbattesse le false costruzioni del sé. Con un io autentico e risanato, purificato dai vaffa, potevamo indossare il nuovo abito, acquistare il ghigno sardonico e processare il nostro prossimo. Che poi prossimo è diventato sempre più prossimo, sempre più invadente, sempre più nemico. Prossima era la casta, prossime erano le multinazionali, poi ci sono state altre entità prossime, la scienza ufficiale, le banche (e la Boschi), naturalmente la tecnica, poi il vicino di quartiere, poi il compagno di pianerottolo: che volete farci? Sono i problemi dell’autenticità, ogni persona arrabbiata è convinta che quello che sente è autentico e singolare. Se è autentico e singolare perché non esprimerlo sempre e dovunque? Come la candeggina, quella voce autentica purifica il mondo dai germi. Se anche l’altro è arrabbiato? Come si fa allora a distinguere qual è l’io più autentico? Difatti… che casino. Diciamo che gli arrabbiati sono d’accordo su tutto in prima battuta, poi discutono, magari applicano una ventilation therapy, così tanto per non perdere l’abitudine, la rabbia sale e allora non si è più d’accordo. A volte basta una sfumatura. Altre volte con la rabbia nemmeno si arriva alla discussione, voglio dire, la rabbia è preventiva: bisogna screditare sul nascere ogni possibile scenario, ogni programma potrebbe essere un mercato delle poltrone, ogni appunto sul programma un affronto alla volontà dei cittadini. Casino, bordello. Capite bene che a questo punto interviene qualcuno che dall’alto di una qualche autorità legittima o acquisita per meriti di rabbia passata dice: arrabbiatevi pure, però alla fine decido io. E’ così che i dittatori salgano al comando, mica è la prima volta che il Novecento ha mostrato a tutti le conseguenze, a lungo termine, della rabbia e della frustrazione. Un’altra conseguenza della rabbia è la presunzione di bastare a se stessi. L’arrabbiato sa tutto. In nome delle rabbia è agito, proprio perché in contatto con l’io più autentico. L’io più autentico a sua volta è in contatto con la natura più profonda. E questa (la natura profonda) dice sempre la verità. Dunque a che serve studiare e conoscere? Quando si è arrabbiati si è tutti dei geni ribelli. Lo ricordate il film, Will Hunting - Genio ribelle? Matt Damon è un bidello geniale e in un punto del film prende in giro uno studente (biondino, bianco, antipatico e sbruffone). Gli dice: hai sborsato 150 mila dollari per un’istruzione che potevi avere leggendo un solo libro a un dollaro e 50. Il bidello del film era un genio ed era arrabbiato (si divertiva nelle risse) e la sua arringa faceva pensare che non solo il dilettante (che comunque sa come campare) ne sa più del professionista ma il professionista (avrà pure la laurea) non sarà mai arrabbiato e geniale quando il dilettante, e poi non sa fare a botte, non si comporta da uomo. La conoscenza in fondo ha un solo grande nemico: l’arrabbiato.

  

Siccome la democrazia si fonda (più o meno) sulla conoscenza, tirate voi le somme della rabbia che ha investito l’Italia in questi anni: c’è stata una questione sensibile che non sia stata maltrattata dagli arrabbiati? Per non ripetere sempre i soliti fatti, e per non elaborare un’ipotesi a partire da genio ribelle (che poi il genio in quel caso aveva un personalità complessa), ma quanti arrabbiati, quanti geni dilettanti che hanno letto un libro a un dollaro e 50, hanno parlato di vaccini, stamina, casi medici complessi, casi agronomici complessi, casi umani complessi e Tap? Che importanza ha dire per esempio: ma come fai a votare quello? Sì sarà ignorante o incompetente, ma da arrabbiato è in contatto con il sano sentimento popolare. Quindi io e lui ci tocchiamo, abbiamo in comune la rabbia, che, l’abbiamo capito o no, basta a se stessa: e non solo, ti dà qualcosa in cambio. Fateci caso, oltre alla pressione e alla vena che si gonfia cos’altro comporta la rabbia? La rabbia sfocia nel risentimento e il risentimento esige vendetta. Quindi, quanti geni solitari si sono sentiti arrabbiati, colpiti ingiustamente (dai politici, dalle banche, dalla casta, dalle multinazionali, dai complotti, dalla Boschi e dalla Boldrini) e hanno chiesto (facendo parlare il proprio sé più autentico e più vicino al cuore pulsante del mondo) un risarcimento, un rimborso? Sì, perché se la rabbia, nel migliore dei casi, può esplodere e poi placarsi, il risentimento è deliberato, può durare tutta la vita, è un motivo per cui vivere. Certo è sterile, può procurare, almeno secondo una scuola di psicosomatica famosa negli anni Cinquanta, disturbi della digestione e ulcere gastriche, ma che importanza ha: ci garantisce comunque qualcosa: un rinculo di potere. Vogliamo un rimborso, vogliamo, dunque: le nostre banche, essere casta ma diversi, una multinazionale solo per noi, i boccoli e la bellezza e un fratello bello. La rabbia e il risentimento che ne segue sono anche ottimi strumenti per gestire il senso di colpa, se diamo in escandescenza contro qualcun altro, addossiamo la colpa a lui allora proviamo sollievo, ci sentiamo puri. Cos’altro possiamo desiderare? Rimanere puri, ovvio. Quindi niente collaborazioni con impuri, perché con quelli non si parla e niente domande scomode: mica in questa situazione c’entro anche io? In fondo per risolvere i problemi italiani basterebbe ragionare sullo stile.

  

I problemi sfuggono alla competenza dei singoli, perché il mondo è complesso. Siamo sette miliardi e passa. Tocca organizzarsi e imparare a dialogare. Ma se arrabbiati come siamo non riusciamo nemmeno a parlare alla riunione di condominio, se siamo solo preoccupati di proteggere il nostro piccolissimo habitat?

Le persone arrabbiate possono esserlo per giusti motivi, sentono che qualcosa gli è stato tolto, magari auspicano di uscire dallo status di arrabbiati e risentiti. Ma è tutta una questione di stile. Bisogna rileggere il modello e cambiarlo, non ripeterlo. La lotta contro la rabbia spesso richiede autocoscienza, una pratica che si compie in solitudine. Bisogna lottare contro le proprie abitudini. Pensate a Nelson Mandela. Lo diceva spesso: conosco bene la mia rabbia. E ci mancherebbe che non fosse così. Eppure sapeva che doveva lottare contro la richiesta di risarcimento. Ventisette anni di prigionia nei quali ha dovuto praticare una disciplinata meditazione proprio per evitare la trappola della rabbia e andare avanti. Le riflessioni dal filosofo stoico Marco Aurelio l’hanno di certo aiutato. Mandela era determinato, voleva una nazione di successo, sapeva che non poteva esistere una nazione così fin quando due gruppi fossero stati separati dal sospetto, dal risentimento e dal desiderio di far pagare l’altra parte per i torti subiti. Anche se quei torti erano terribili, la cooperazione era necessaria per il bene della nazione. Così ha imparato l’afrikaans. Ha studiato la cultura e il pensiero degli oppressori. Ha fatto amicizia con i suoi carcerieri. Sembra un proposito gandhiano, eppure non è così. Mandela era realistico. Voleva una nazione nuova, soprattutto nello spirito. Sarebbe stato un errore, dunque, focalizzarsi sul risentimento e sulla ricompensa. L’attenzione era tutta sul futuro, Dunque, generosità e cordialità non erano giustificate dalle azioni passate, ma erano necessarie per i progressi futuri. Mandela… vabbè, troppo lontano. Con tutti i Salvini e i CasaPound che abbiamo. Però, pensavo mentre camminavo sotto questa nevicata, se non pratichiamo un po’ di meditazione anche noi, se non facciamo fluire dolore, rabbia e risentimento, poi davvero speriamo che una volta andati al potere questa nostra Italia migliori? I problemi sfuggono alla competenza dei singoli, perché il mondo è grande, complesso, variopinto. La sua formula è: 1-1-1-4. Per grandi numeri, abbiamo un miliardo di persone nelle Americhe, uno in Europa, uno in Africa e 4 in Asia. Sette miliardi e passa. Fra poco arriveranno un miliardo di africani e un miliardo di asiatici. Tocca per forza organizzarsi in squadre e imparare a parlare, dialogare, fondare tavoli sempre più grandi, ma se arrabbiati come siamo non riusciamo nemmeno a parlare alla riunione di condominio, se siamo solo preoccupati di proteggere il nostro piccolissimo habitat? Se la nostra personalissima ed emotiva collana di perle ci impedisce di vedere quella del vicino, se pensiamo che grazie al nostro sé autentico – liberato dalla cenere, grazie alla rabbia – possiamo conoscere il mondo? Se invece di rileggere il modello lo restauriamo appena la sbornia di rabbia è passata, se facciamo tutto questo che Italia sarà? Poi da una parte è anche facile. La voglia di purezza può prenderti in qualsiasi momento, anche ora, mentre attraverso Roma sotto la neve. Sgombra da macchine, liberata dai romani, pulita dal manto, silenziosa ma musicale come un brano di John Cage. Con le sue cupole accoglienti e le meraviglie del barocco, tutte imbiancate, il Tevere che scorre lento. Roma sembra così vicina al cuore nostro e dell’Italia, entrambi antichi e puri. Momenti così sono rari e sono alla base nella comprensione del mondo, aumentano la nostra sensibilità. Sostengono un’idea di ordine, sono un rifugio dal caos, e poi invitano alla decenza. Tuttavia è troppo facile pensare che possano durare per sempre.

  

La purezza, come la perfezione, elementi che in alcune arrabbiature senti di aver raggiunto, non sono accoglienti, ma alla lunga pure respingenti. Bisognerà vederla domani questa città, quest’Italia, quando l’io autentico si è allontanato e la neve silenziosa non scenderà più. Bisognerà allora provare a parlare, ma prima con noi stessi. Riflettere non tanto su cosa dire, ma come dirlo: una questione di stile, di primaria importanza. Per poter parlare insieme, un coro e non una cacofonia di arrabbiati. Ci riusciremo? Smaltita la rabbia? Riusciremo a dire ma senza urlare, a mezza voce, ironicamente: ma vaffanculo all’Italia del vaffanculo? A volte mi sembra che non sia difficile, basta guardarsi intorno ora, proprio ora, alla fine di questa camminata, a poche ore dalle elezioni, dalla fine dei teatrini politici, dalle imitazioni, contraffazioni, real data e fake news. Proprio ora, sotto la neve siamo felici. Nessuno si sente superiore, nessun ghigno sardonico. Ci salutiamo e ci sorridiamo anche se non ci conosciamo. E infatti mentre cammino, saluto tutti e mi saluta e sorride il carabiniere, il netturbino rumeno, il corazziere, l’impiegato romano, il panettiere pakistano, quello che corre in pantaloncini, quello che spala, quello che apre il negozio, l’indiano che vende i giornali, e tutti, di sicuro, tutti sotto la neve ci guardiamo meglio, anche per un istante, e non indichiamo solo quel particolare su cui concentrarci, ma la figura intera, il profilo e lo sfondo, la persona e la neve. E avvolti dal canto della neve silenziosa, rincorriamo non tanto il fantomatico io autentico, quello arrabbiato, in sintonia con la natura profonda delle cose, ma quello più umile e gioioso, sì, quello dell’infanzia. Quando potevamo giocare e costruire insieme un castello, un fortino, un mondo immaginario, che tra l’altro ci sembrava più bello di quello reale, o forse lo era, soprattutto perché lo costruivamo tutti insieme: sotto il sole, la pioggia, la neve, e per un intero pomeriggio (certi cascanti pomeriggi estivi o quei sonnolenti e lunghi pomeriggi invernali) senza stancarci e senza arrabbiarci, se non di tanto in tanto, finché non arrivava la notte.

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