(foto LaPresse)

La collaborazione europea e i timori sulla distribuzione del vaccino secondo l'Irbm di Pomezia

Marianna Rizzini

Dalle possibilità di una seconda ondata (ci sarà o no?) al rischio di una guerra geopolitica con il vaccino come trofeo

Roma. Il futuro no-Covid che sembra non arrivare mai – ci sarà o no la seconda ondata?, ci si domanda a margine di ogni discorso sulla fase di ripartenza – e la speranza legata alla possibilità di avere un vaccino che sia quanto più possibile “bene comune” e non “bene di lusso”, come l’ha definito in piena pandemia il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, annunciando lo stanziamento di fondi nell’ambito di un “patto europeo” per l’uscita dall’emergenza sanitaria. E tre giorni fa il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato la firma congiunta (con i ministri della salute di Germania, Francia e Olanda) di un contratto con AstraZeneca, l’azienda che, se l’ultima fase di sperimentazione andrà bene, produrrà da fine settembre il vaccino (al momento ancora “candidato vaccino”) sviluppato dallo Jenner Institute di Oxford. Un accordo “per l’approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi da destinare a tutta la popolazione europea”, ha detto Speranza. A livello europeo, al momento, si lavora su due fronti: l’accordo tra i ministri della Salute europei per finanziare la ricerca sui vari “candidati”, ma anche la possibilità di esercitare opzioni di acquisto sui più promettenti, a prezzi industriali e in dosi che possano coprire il fabbisogno dei vari paesi. “Il vaccino lo paga lo stato e verrà distribuito gratis a cominciare dalle classi più a rischio”, ha detto sempre Speranza sul Corriere della Sera. Sotto traccia, corre intanto un’altra paura: sarà possibile distribuire equamente il vaccino o c’è davvero il rischio di uno scenario “America first” (via Donald Trump) nella cura del coronavirus?

 

“Si può stare tranquilli: AstroZeneca ha accettato di vendere a prezzo industriale, cioè senza caricare il prezzo della proprietà intellettuale, e in modo uniforme tra Europa, Stati Uniti e altri paesi, proprio per evitare concentrazioni e omissioni”, dice Pietro Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato di Irbm, l’azienda di Pomezia che sta producendo le dosi per i test del “candidato vaccino” di Oxford. “Sempre con la premessa ‘se tutto andrà bene’”, dice, “e sempre sapendo che, dal punto di vista tecnico, la collaborazione europea è ancora da scrivere nei dettagli, l’accordo a quattro annunciato dal ministro Speranza è da salutare, intanto, come un primo passo verso la collaborazione globale per l’uscita dall’emergenza. Non era scontato, oltre al fatto che l’Italia si trova adesso nel pool di testa di questo processo.

 

Il vaccino, come ha detto von der Leyen, è davvero un bene comune e in questo senso il fatto che l’azienda produttrice abbia messo a disposizione due milioni di dosi senza sovrapprezzo è un altro fatto positivo, segna un nuovo corso. E’ stata fatta una suddivisione territoriale per produzione e distribuzione: America, Europa, India, Africa, con le grandi fondazioni – come quella dei Gates, per esempio – impegnate sui paesi con reddito inferiore. Si sta cercando di lavorare in direzione di una produzione e distribuzione in contemporanea in tutto il mondo”. Il “candidato vaccino” di Oxford a cui lavora anche l’azienda di Pomezia è intanto arrivato a un passo dal traguardo: la fase finale di sperimentazione sull’uomo (su decine di migliaia di volontari), cominciata in marzo, si concluderà a settembre. Poi, dice Di Lorenzo – che con la Irbm è attivo da molti anni nel campo della biologia molecolare, chimica organica e ricerca su nuovi farmaci, specie nel campo delle malattie infettive (tra cui Ebola) – “si dovrà attendere la validazione degli enti regolatori, prima di passare alla produzione vera e propria”. Il “candidato” in questione funziona, spiegava Di Lorenzo a inizio sperimentazione, con un meccanismo a “vettore”: dopo che in Cina era stato isolato e messo in rete il sequenziamento del Covid-19, i ricercatori inglesi hanno sintetizzato il gene della proteina detta “spike”, la parte pericolosa che nelle foto compare con l’ormai nota forma a corona. Irbm ha messo a punto un vettore, un adenovirus che, dice Di Lorenzo, “può fare da cavallo di Troia, in modo che il gene depotenziato della proteina incriminata possa essere introdotto nell’organismo, ma senza potersi replicare”. In questo modo l'organismo, sotto attacco, può produrre gli anticorpi e immunizzarsi. Funzionerà? Si attende l’autunno – anche per capire se davvero sarà possibile evitare quella che molti temono possa comunque diventare una guerra geopolitica con il vaccino come trofeo.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.