Fratelli di siero
Sanità regionale e test di immunità: l’unità dell’epidemia impone anche l’unità di livelli minimi di certificazione
Uno dei problemi che ci troveremo ad affrontare nella definizione del profilo serologico degli italiani – cioè nell’identificazione di quali fra essi sono immuni al virus – è quello della corsa al test che le diverse autorità sanitarie regionali stanno in questo momento scatenando. Il punto è che ciascuno, in tutta fretta, sta preparandosi a esaminare la popolazione alla ricerca dei famosi anticorpi.
C’è il Veneto, che ha annunciato prima l’acquisto di 700.000 kit diagnostici rapidi, per poi chiarire che in realtà partirà prima un progetto dedicato alla ricerca di anticorpi nel personale medico, con la molto più affidabile tecnologia del test a chemiluminescenza, fornito da una ditta cinese che ha la certificazione CE e centralizzato su larga scala presso l’Università di Padova. Poi c’è la Toscana, anch’essa impegnata nell’acquisto e nell’esecuzione di propri test serologici, la cui natura per il momento non sono ancora riuscito ad appurare. E vi sono ancora altre regioni, per le quali si dice che sia iniziata la caccia al test. In molte di queste regioni, si è parlato già della certificazione dei cittadini che risulteranno immuni – il famoso “patentino di immunità”, idea tedesca che evidentemente è piaciuta a molti.
A questo punto, un dubbio sorge spontaneo: che cosa succederà quando un cittadino toscano, munito di patentino regionale, deciderà di affacciarsi in Veneto? O quando un Veneto deciderà di recarsi in un’altra regione, pure essa dotata di propri screening diagnostici e certificazione di immunità, diversi da quelli veneti?
In altre parole: come possiamo consentire che la frammentazione regionale del nostro sistema sanitario nazionale, pure in occasione di un’epidemia, produca una certificazione per i cittadini basata su test eterogenei, con diversi protocolli e diversi gradi di affidabilità?
E, dato che al momento non sono noti i tassi di errore dei vari test in adozione nelle diverse regioni, cosa succederà quando ci si accorgerà per esempio che il test in questo momento in studio all’Università di Padova ha un tasso di falsi positivi – soggetti che cioè sembrano immuni al test ma non lo sono – pari a circa il 4 per cento, mentre in altre regioni potrebbe toccare il 10-12 per cento se useranno certi test commerciali rapidi su microstrip? Queste e altre domande impongono, naturalmente, una riflessione: la sanità regionale, in presenza di una pandemia, è una follia, se consente a piccoli territori di procedere per conto proprio sulla certificazione sanitaria o anche semplicemente sulle misure di contenimento.
E’ arrivato il momento di riflettere molto bene sul fatto che l’unità di un’epidemia impone, volenti o nolenti, anche l’unità di certi livelli minimi di assistenza sanitaria e certificazione, pena l’impossibilità di contenere non solo l’attuale epidemia, ma anche i suoi “ritorni di fiamma” o successive diverse epidemie.
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