(foto LaPresse)

Due virologi smontano la strategia di Boris Johnson contro il Covid-19

Luciano Capone

Muoiano pure i più deboli? Tutti i limiti della teoria dell'“immunità di gregge”

Roma. Il Regno Unito ha una strategia alternativa contro l’epidemia da coronavirus, o meglio, una non-strategia: far diffondere il virus con l’obiettivo, o la speranza, che si crei una “immunità di gregge”. Il consigliere scientifico di Boris Johnson, sir Patrick Vallance, ha dichiarato che il governo intende “cercare di spalmare il picco, non di eliminarlo completamente”: “Ciò che non vogliamo è che tutti prendano il virus in breve tempo intasando i servizi sanitari” ma contemporaneamente, siccome la gran parte della popolazione ha solo sintomi leggeri, evitando le misure restrittive adottate da paesi come l’Italia “con il 60 per cento della popolazione contagiata, avremmo una immunità di gregge”, ha dichiarato Vallance a Sky News. Con una popolazione di 67 milioni, i britannici contagiati sarebbero poco più di 40 milioni. E con un tasso di letalità di Covid-19 che è come minimo dell’1 per cento, la strategia del governo britannico implica il “sacrifico” – ovvero la morte – di almeno 400 mila persone. “Moriranno molti nostri cari”, ha detto il premier Johnson. Ma a parte le considerazioni etiche, può funzionare?

 

“Il principio dell’immunità di gregge è lo stesso che vediamo nelle vaccinazioni: se una larga fetta della società è vaccinata, anche le persone che non possono vaccinarsi sono protette, perché il virus non si trasmette tra persone immunizzate – dice al Foglio il prof. Nicasio Mancini, virologo al San Raffaele –. Solo che attraverso i vaccini si ha l’immunizzazione senza contrarre malattia, nel caso di Covid-19 non essendoci un vaccino l’immunizzazione arriverebbe attraverso la malattia”. Ma ciò vuol dire essere disposti “ad accettare centinaia di migliaia di morti soprattutto tra i soggetti più a rischio – prosegue Mancini –. Perché per contenere un’epidemia nell’immediato non si conta sull’immunità di gregge, ma sull’isolamento. Quello che si osserva in Cina e in Corea del Sud fa capire che ciò che serve nella fase ascendente dell’epidemia è un contenimento legato al blocco delle trasmissioni. Nel frattempo si guadagna tempo per lo sviluppo di un possibile vaccino o di farmaci efficaci”.

 

Oltre a questo c’è un problema di fondo, spiega il prof. Andrea Cossarizza, immunologo dell’Università di Modena e Reggio Emilia: “L’immunità di gregge necessita che gli individui sviluppino una forte risposta immunitaria contro il virus, ma non abbiamo alcuna evidenza che ciò accada, e come. I dati sulla Sars, un coronavirus precedente a questo, che ha mietuto centinaia di vittime nel 2003 (tra cui Carlo Urbani, il medico italiano che l’ha identificata), ci dicono che, nei pazienti guariti, dopo qualche anno una memoria immunitaria persiste ma è piuttosto debole e potrebbe non proteggere da una seconda infezione”. Il prof. Cossarizza individua almeno cinque problemi nell’approccio del governo Johnson: “Non sappiamo come sia l’immunità contro questo virus, non sappiamo quanto duri, non sappiamo come e se le mutazioni del virus la possano eludere, sappiamo che se il virus persiste nella popolazione aumentano le possibilità che si generino nuove mutazioni che ne aumentano la patogenicità. Infine ci sono considerazioni etiche da fare, mi sembra ‘immuno-nazismo’: muoiano pure i più deboli. E’ come giocare alla roulette russa con 5 proiettili in canna su 6”.

 

C’è infine un piano politico che BoJo non ha considerato nella sua strategia nazi-darwiniana. Alle ultime elezioni, due elettori over 70 su tre hanno votato per lui e, più in generale, per ogni 10 anni in più di età di un elettore, le possibilità che voti per i Tory aumentano di 9 punti. Quindi, demograficamente, il coronavirus farebbe una strage soprattutto tra gli elettori conservatori. Insomma, come direbbe Fouché, quello di Johnson è peggio di un crimine: è un errore politico.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali