svolta moderata

Il trumpismo è una minaccia per l'algoritmo della moderazione meloniana

Claudio Cerasa

L'eventuale rinascita politica di Trump potrebbe frenare il processo di allontamento dal populismo di Meloni. Ma una scappatoia c’è ed è in Europa. Appunti per l’Economist

Noi ottimisti, giocando con il gusto del paradosso, ci rallegriamo ogni giorno, anche nei giorni meno allegri, nel vedere un governo sovranista costretto a fare i conti con il peso delle sciocchezze raccontate nel passato. Osservare un governo incoerente, deciso cioè ad archiviare buona parte delle sue promesse scellerate per non essere evidentemente incompatibile con la realtà, è un oggettivo spasso quotidiano. E su questo giornale, da mesi, ci divertiamo con un po’ di malizia a elogiare Giorgia Meloni non tanto per quello che fa quanto soprattutto per quello che non fa.

 

Tra le cose che varranno la pena monitorare nei prossimi mesi di governo Meloni ce n’è una importante che riguarda uno dei molti tabù e uno dei molti imbarazzi con cui la presidente del Consiglio dovrà fare necessariamente i conti. Il tabù in questione riguarda la candidatura americana di Donald Trump e il rapporto tra la presidente del Consiglio italiana e l’ex presidente degli Stati Uniti è interessante per almeno due ragioni. La prima è pratica: se Matteo Salvini, nelle prossime settimane, dovesse iniziare a inneggiare a Donald Trump, Meloni accetterà serenamente di regalare al suo vice il trumpismo di governo? La seconda ragione, come direbbe Meloni, è più “strategica”: se la stella di Trump dovesse davvero tornare a brillare, cosa ne sarà delle svolte moderate della premier italiana?

 

Gli ottimisti con i piedi per terra – e con le antenne non troppo fra le nuvole – non possono che avere sul governo Meloni un approccio molto differente rispetto a quello mostrato nelle ultime settimane dall’Economist. Se ci si vuole concentrare sulle inezie, il populismo è ancora ben visibile. Se ci si vuole concentrare sulla sostanza, invece, le svolte moderate sono decisamente numerose. All’Economist – che ha dedicato un editoriale a Meloni intitolato “Not so moderate after all” – ne potremmo segnalare facilmente quattro: posizione sull’Ucraina, attenzione al debito, progressivo avvicinamento all’europeismo, fedeltà assoluta sull’atlantismo.

 

A voler osservare con uno sguardo sincero le svolte reali attuate da Meloni, la domanda giusta da porsi non è se le svolte esistano ma a cosa siano legate. E per rispondere a questa domanda occorre proiettarsi su uno doppio scenario: quello europeo e quello americano. Sul fronte europeo, le formidabili incoerenze di Meloni sono destinate a moltiplicarsi e forse persino a consolidarsi se davvero capiterà quello che in molti si aspettano che accada tra qualche mese alle elezioni europee: una non vittoria del fronte delle destre, un allargamento della maggioranza Ursula, un coinvolgimento in questa maggioranza del partito di Meloni.

 

Un’eventuale larga coalizione in Europa costringerebbe Meloni a limare ancora di più i tratti estremisti del suo governo (o quantomeno del suo partito). Ma – ed ecco la vera domanda da porsi – un’eventuale cavalcata di Donald Trump alle prossime elezioni che effetto potrebbe avere sulla traiettoria meloniana? Buona parte delle svolte moderate a cui Meloni è stata costretta in questi mesi si è materializzata anche grazie a un progressivo allineamento tra la politica estera italiana e quella americana.

 

E per questo è naturale chiedersi se la non impossibile ascesa del trumpismo possa avere o no un impatto sull’algoritmo della moderazione meloniana. Difficile rispondere oggi a questa domanda. Ma è altrettanto difficile non riconoscere che il modo in cui Meloni seguirà la campagna di Trump aiuterà a capire qualcosa sul profilo futuro del governo italiano più delle polemiche da quattro soldi sul libro di un generale scapocciato.

 

E’ altrettanto difficile non riconoscere che comunque andranno le elezioni americane, Meloni ha solo una strada per mettere l’algoritmo della moderazione al riparo dalle tentazioni trumpiane: avvicinarsi all’Europa per emanciparsi in modo irreversibile dall’internazionale del complottismo nazionalista. La sfida del futuro, caro Economist, più che sull’agenda fuffa passa semplicemente da qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.