Un sostenitore dell'ex presidente Donald Trump fuori dalla prigione della contea di Fulton (Foto di Jessica McGowan/Getty Images) 

La Trump Age

Trump posa come Churchill, e i sostenitori nella foto segnaletica vedono l'uomo forte

Marco Bardazzi

L'ex presidente americano ha ormai segnato un'era. I prossimi mesi di fuoco dei repubblicani tra processi, dibatitti e sondaggi

Ci sono immagini che definiscono un’epoca, destinate a passare dalla cronaca direttamente ai libri di storia. La foto segnaletica scattata in una prigione di Atlanta a Donald Trump e poi diffusa dall’ufficio dello sceriffo della contea di Fulton, è una di queste. Al termine di una settimana di grande importanza per la corsa alla Casa Bianca 2024, quell’immagine diventa l’icona di una stagione politica che dura da sette anni e che, piaccia o no, è ormai chiaramente caratterizzabile come “Trump Age”, l’èra di Trump. Niente e nessuno per il momento sembra in grado di mettere fine a un’èra che è proseguita anche durante la presidenza di Joe Biden e che non sembra scalfibile né da quattro inchieste giudiziarie, né tantomeno da un gruppo di aspiranti alla nomination repubblicana che non riesce a uscire dal cono d’ombra in cui lo tiene l’ex presidente.

 

I media progressisti americani sperano di vedere in quel mugshot scattato ad Atlanta, con il logo dello sceriffo della Fulton County, la foto di un nuovo Al Capone o, visto il passato televisivo di Trump, di un Tony Soprano. Ma lo sguardo truce che ha fatto il diretto interessato davanti al poliziotto che lo fotosegnalava racconta tutt’altra storia: Trump ha già usato quell’espressione in passato, spiegando di ispirarsi a una celebre immagine di Winston Churchill. Ed è questo che vedono in lui i suoi seguaci, un leader forte che vuol rendere l’America “great again”. Un capo pieno di energia – in un momento in cui alla Casa Bianca c’è un anziano commander in- chief dalla voce flebile – perseguitato da un apparato giudiziario guidato dai democratici. Un ex presidente ingiustamente privato di una vittoria elettorale che esiste solo nella loro immaginazione e che si batte per ripulire una Washington corrotta.

   

E’ una narrazione che gli avversari per la nomination non riescono a cambiare. Nel 2016 Trump si era imposto nei dibattiti tra candidati repubblicani con l’imponenza della sua figura e con colpi bassi e aggressività che avevano spiazzato tutti. Adesso i dibattiti li vince anche senza partecipare, come è accaduto con il confronto di mercoledì a Milwaukee tra i suoi sfidanti. Quello che sul palco se l’è cavata meglio è stato il figlio di immigrati indiani Vivek Ramaswamy, ma l’ha fatto difendendo l’ex presidente, imitandone lo stile e facendo implicitamente capire che non è in corsa per la nomination, ma per sperare di diventare il vice in un ticket presidenziale con Trump. Magari con l’aiuto di Elon Musk che lo sponsorizza apertamente su Twitter/X (Trump è tra l’altro appena tornato a postare sul social di Musk, dopo un silenzio che durava da gennaio 2021).

Certo, è ancora presto e le impressioni che gli addetti ai lavori ricavano dai dibattiti non sono necessariamente quelle dell’elettorato. Ieri è uscito un primo sondaggio di Washington Post, FiveThirtyEight e Ipsos condotto tra un campione di repubblicani che voteranno in Iowa e New Hampshire (i primi stati della corsa alla nomination) e il vincitore è risultato Ron DeSantis con il 29 per cento, seguito da Ramaswamy con il 26 e dall’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley con il 15 per cento. Il governatore della Florida, che è ancora il vero sfidante di Trump, era apparso un po’ in ombra agli analisti politici, ma a quanto pare comincia a convincere il grande pubblico. La Haley, a sua volta, ha impressionato per la calma e l’autorevolezza dimostrata in mezzo a un gruppo di maschi impegnati in una rissa da liceo ed è sempre più la paladina di un establishment repubblicano che nella Trump Age resta però marginale. 

 

Il problema è che tutto quello che sta avvenendo in America in questo periodo è senza precedenti e si corre così verso il primo voto vero, in Iowa a gennaio, senza avere riferimenti storici o statistici affidabili.  Adesso comincia una fase delicatissima fatta di quattro mesi in cui la corsa dei repubblicani entrerà nel vivo nello stesso momento in cui Trump e il suo team legale si muoveranno tra udienze e processi a New York, Washington, Atlanta e Miami. Difficile spostare l’attenzione dei media lontano dall’ex presidente, che ha subito cominciato a cavalcare sui social il suo nuovo status di galeotto libero su cauzione, con foto segnaletica e numero di identità da detenuto (P01135809). La campagna di Trump investirà su questo look-prigione, con gadget e magliette già pronti, facendo credere al popolo dei suoi elettori che l’ex presidente sia una specie di Alexei Navalny all’americana in lotta contro i poteri forti del “deep state” democratico. Il rischio, per chi osserva tutto questo da lontano, per esempio dall’Europa, è ridurlo a qualcosa di folkloristico. Invece è non solo tremendamente serio, ma molto, molto pericoloso. La situazione l’ha fotografata bene lo stesso Trump nell’intervista che ha dato su Twitter/X al conduttore di estrema destra Tucker Carlson, mentre i suoi avversari dibattevano in tv. Carlson gli ha chiesto se non ci sia il rischio di una guerra civile in America e Trump si è lanciato in un lungo elogio del popolo dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, spiegando di “non aver mai visto così tanta passione e amore e nello stesso tempo così tanto odio per quello che hanno fatto al nostro paese”. Passione e odio, ha ammesso Trump, “probabilmente sono una pessima combinazione”. Sicuramente sono una miscela pericolosa, in un paese dove i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario sono impegnati in uno scontro senza precedenti e dove sembra saltato quell’equilibrio di check and balance che ha tenuto in piedi in un modo o nell’altro l’esperimento democratico americano per due secoli e mezzo. La corsa verso l’anno elettorale si preannuncia ricca di inquietudini e, forse, di violenza.