Matteo Salvini (foto LaPresse)

la nuova strategia

Il silenzio assordante di Salvini, che ha perso la sua guerra contro i migranti

Luca Gambardella

Il Mediterraneo pullula di ong, i colleghi di partito smontano il decreto Sicurezza, gli alleati vogliono cambiare la Bossi-Fini. Ma il segretario della Lega tace e parla di immigrazione solo dall’Ucciardone, dove è a processo

Matteo Salvini non parla più di migranti. Dal vocabolario del segretario della Lega sembra che l’intero glossario sovranista dei tempi andati, alla voce immigrazione, sia stato depennato da mesi. Niente più “porti chiusi”, basta con la “lotta ai clandestini”, persino la Bestia delle campagne social anti ong sembra essersi spenta e nessun allarme “sostituzione etnica” è stato lanciato dalle rive del Carroccio. Un silenzio in curiosa controtendenza con un’emergenza che quest’anno non è mai stata tanto reale. Secondo i dati diffusi ieri dal ministero dell’Interno, nei primi otto mesi del 2023, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sono sbarcati 101.386 migranti sulle coste italiane, in crescita del 107 per cento. Nonostante i numeri allarmanti, nelle vesti di ministro delle Infrastrutture Salvini si è ritrovato a parlare di sbarchi solamente fra le mura dell’Ucciardone. Ma lì, nell’aula bunker del carcere di Palermo, il segretario della Lega è costretto nella scomoda posizione di imputato, con l’accusa di omissione di atti d’ufficio e sequestro di persona, per aver negato nel 2020 lo sbarco a Lampedusa dei richiedenti asilo soccorsi da un’imbarcazione della ong spagnola Open Arms. Sui social, l’ultimo riferimento di Salvini ai migranti risale a maggio, prima della grande ondata di arrivi, quando il Capitano ha rivendicato con orgoglio la sua amicizia con Marine Le Pen: “Non accetto lezioni sull’immigrazione da chi respinge in Italia donne, bambini e uomini”, aveva scritto su Twitter in uno dei suoi slanci contro il presidente francese Emmanuel Macron. Da allora, silenzio. Messo sotto pressione per le vicende processuali del caso Open Arms, placato dalla sorprendente moderazione che accompagna questo primo anno di governo Meloni, smentito dai fatti e dai numeri sull’efficacia dei respingimenti a fronte di un flusso di arrivi che invece sembra inarrestabile, Salvini non pare voglia continuare una guerra ormai data per persa come quella dei migranti, e forse non più così utile nelle urne.

 

Tanti, troppi i fallimenti. Prima di tutto quello sulle ong. La settimana scorsa, in appena 48 ore, la nave Ocean Viking dell’ong Sos Mediterranée ha compiuto ben 15 operazioni di salvataggio dei migranti – peraltro in zona sar maltese – su esplicita richiesta del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto di Roma. Sono state 623 le persone recuperate nella più grande operazione di salvataggio di sempre compiuta dalla Ocean Viking. Con buona pace del decreto Piantedosi, che imponeva alle ong un solo intervento per volta, il comando di Roma ha chiesto aiuto alle navi umanitarie affinché compiessero più salvataggi consecutivi. La stessa cosa era accaduta a luglio, quando si era arrivati a sei interventi di fila da parte di Open Arms – anche in questo caso su richiesta della Guardia costiera –, la stessa ong che ha portato a processo Salvini per i fatti del 2020.  A quelle prime avvisaglie di un “pericoloso” cambio di paradigma sulla cooperazione tra Guardia costiera e ong, seguì il silenzio imbarazzato dei leghisti, interrotto solamente dal Foglio per chiederne conto al sottosegretario al ministero dell’Interno, Nicola Molteni, la “mente” dei decreti Sicurezza: “Con Open Arms non collaboriamo, è stato un caso isolato”, ci aveva detto. Un mese dopo, sono i fatti a dimostrare invece che la collaborazione fra ong e Guardia costiera è ormai la prassi, non l’eccezione. Qualcuno fra le stesse navi umanitarie tira sospiri di sollievo sulla nuova gestione dei salvataggi, in discontinuità con gli anni di reggenza salviniana al Viminale. “Si interviene come si dovrebbe in una situazione di normalità”, aveva dichiarato Open Arms.  

 

Nel frattempo, Salvini ha mantenuto il basso profilo persino in queste settimane in cui il Mediterraneo pullula di navi delle ong  in concomitanza con numeri di partenze elevati, sia dalla Tunisia (da dove sono salpate 54.693 persone da gennaio a luglio), sia dalla Libia (30.075 migranti diretti sulle nostre coste, al netto degli scontri scoppiati a Tripoli negli ultimi giorni e che potrebbero condurre ad ancora più instabilità). Nemmeno questo però è bastato a rilanciare il fantomatico “allarme pull factor”, tanto caro dalle parti del Carroccio fino a meno di un anno fa. 

 

Le crepe nell’impalcatura della propaganda leghista, costruita con pazienza in anni di opposizione prima e di governo poi, compaiono anche alla voce accoglienza. Salvini e i suoi hanno dovuto cedere quando il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto Flussi con i numeri più elevati di sempre (circa 500 mila posti). Una scelta “necessaria”, fu il commento a denti stretti di Salvini. Fino ad arrivare alla Bossi-Fini, messa in discussione dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Nessuno in 20 anni aveva mai osato  rimettere mano alla legge. Ma ora “si è rivelata inefficace”, si è spinto a dire Piantedosi parlando del provvedimento  giudicato da più parti ai limiti dell’incompatibilità con il diritto internazionale per la sua impostazione repressiva. Solo lo scorso gennaio, nell’ambito dei lavori nelle commissioni Trasporti e Affari costituzionali, la Lega aveva tentato invano di inasprire ulteriormente le disposizioni della legge. Oggi, a distanza di pochi mesi, si è capovolto il mondo. Al punto che persino il nuovo decreto Sicurezza, rivisitato a gennaio sotto la dettatura leghista, alla fine è risultato annacquato rispetto alla sua impostazione originaria. L’accesso al Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) era stato limitato ai soli beneficiari di protezione umanitaria, estromettendo i richiedenti asilo. Ma ecco che ora proprio tra le file della Lega si è aperta un’ennesima faglia, con Luca Zaia, governatore del Veneto, in testa a una “cordata” – bipartisan per giunta – di sindaci del nord-est a sostegno della necessità di ricorrere all’accoglienza diffusa piuttosto che agli hotspot. 

 

Salvini tace e manda avanti i suoi: “Sull’immigrazione, dati alla mano, l’unico che è davvero riuscito a fermarla si chiama Matteo Salvini”, ha ricordato ieri il presidente dei senatori della Lega Massimiliano Romeo. “Ci vorrebbe un altro decreto Sicurezza”, ha rilanciato Molteni. Ma probabilmente, visti i tempi, finirebbe per essere disatteso anche quello e gli elettori del Carroccio sembrano essere i primi ad accorgersene, se è vero che i tesserati del partito sono in calo (-44 per cento in Lombardia, -26 per cento in Veneto). La battaglia del Capitano è persa, meglio lasciare che sia Meloni a sbrigarsela. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.