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L'editoriale dell'elefantino 

Ben venga il riferimento di Meloni a Togliatti, fra tanta retorica sulla Liberazione

Giuliano Ferrara

Il senso del 25 aprile è di riconciliazione nel segno inclusivo della libertà. Per tutti

Fa impressione il nome di Palmiro Togliatti in bocca a Giorgia Meloni (Corriere, lettera di oggi sul 25 aprile). Togliatti fu il capo dei comunisti italiani e un collaboratore di Stalin a Mosca negli anni durissimi dello stalinismo più cupo. Isolati ed esclusi dall’arco costituzionale, ma tollerati nel sistema democratico e parlamentare nonostante la “disposizione transitoria” contro la ricostituzione del disciolto partito fascista, i missini di allora, reduci della Repubblica sociale di Mussolini e lontani progenitori di Meloni, detestavano Togliatti come il nemico simbolico assoluto. Quando ebbe un ictus e cadde in agonia ad Artek, un campo di pionieri a Yalta, nella Crimea allora sovietica e oggi occupata dai russi di Putin, si era nell’estate del 1964, il giornale dell’Msi, il Secolo d’Italia, titolò così: “TOGLIATTI MORTO IN RUSSIA, NELLA SUA PATRIA”.

 

Ora Meloni afferma che l’amnistia varata dall’allora ministro della Giustizia Togliatti fu un passaggio nel negoziato costituzionale che portò a un testo il cui spirito era l’inclusione nella democrazia repubblicana anche degli sconfitti del 25 aprile e della maggioranza di italiani che aveva reagito con passività al fascismo. Meloni vuole dire: nella Repubblica democratica nata dal 25 aprile ci siamo anche noi, che siamo oggi incompatibili con la nostalgia del fascismo, sebbene nati come eredi della sua sconfitta. E’ una notazione storica significativa e intelligente, in armonia con quanto ho appreso nella mia formazione in una famiglia di resistenti comunisti e togliattiani, in conflitto con la vulgata resistenziale degli epigoni dell’azionismo politico e culturale, una componente minoritaria ma nobile e tenace della Resistenza convinta che la guerra di liberazione dovesse mettere capo a una svolta radicale e moralmente rigeneratrice, dalle fondamenta, della storia italiana. Per loro, per gli epigoni di questo radicalismo resistenziale ancora vivo nelle celebrazioni più fanatiche del 25 aprile, la storia italiana era una storia da paese alle vongole, la sua impronta erano un Risorgimento incompiuto dallo stato liberale unitario e dai suoi approdi trasformisti e giolittiani, una laicità e un repubblicanesimo traditi da forze popolari cattoliche e comuniste che con la svolta di Salerno del 1943, ossia l’accettazione della monarchia fino a un suo eventuale rovesciamento referendario e costituzionale, poi con l’amnistia e l’integrazione dei Patti lateranensi di Mussolini e Gasparri nella Carta, avevano fatto della guerra di Liberazione un’occasione mancata nella lotta tra bene e male (in questo schema l’origine degli eccessi folli dell’antifascismo militante). Per i comunisti e per i cattolici la storia era un oggetto politico diverso dall’astratto conflitto etico, il bene contro il male, di qui le loro scelte realistiche messe sotto accusa da quel radicalismo intellettualistico duro a morire, che ancora oggi ispira titoli demenziali di Repubblica come “La difesa della razza” o “L’Italia divisa” (giusto oggi).

 

Con la sua citazione di Togliatti, un tempo arcinemico ora testimone dell’inclusione come metodo democratico, Meloni invita a una matura reciproca legittimazione dei nemici di ieri trasformati dalla storia e dal passaggio delle generazioni umane. Il 25 aprile resta una data simbolica della sconfitta del fascismo e dell’onore dovuto a chi combatté per liberarcene, ma la sua interpretazione resta anche un nodo storico. Con l’aiuto di un testimone a sorpresa nella sua penna, Togliatti, e della sua posizione resistenziale sulla guerra oggi in Ucraina, il capo della prima maggioranza e del primo governo di destra democratica della Repubblica argomenta le sue tesi a favore della riconciliazione nel segno inclusivo per tutti della libertà. Non è poco come risultato ultimo e come vittoria nazionale di un 25 aprile privato della sua componente retorica, restituito al suo vero significato politico a quasi ottant’anni da quel giorno fatale.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.