La statua di Dante in piazza Santa Croce, a Firenze (Ansa)

Fascista? Macché

Dante in camicia rossa. I messaggi in codice tra Gramsci e Togliatti

Siegmund Ginzberg

La ricerca di un profilo politico quasi partigiano, l’uno in carcere, l’altro a Mosca alla testa dell’Internazionale comunista. Il poeta ce l’aveva con gli indifferenti e, paradossalmente, con quelli della propria parte

“Che Dante sia Fascista lo dimostrano tutte le sue opere”. Così dice, non Mussolini, che secondo il suo biografo britannico Denis Mack Smith “conosceva a memoria lunghi brani di Dante” e “leggeva Dante ogni giorno”, ma un suo solerte funzionario. Si chiama Pietro Jacopini. Non è un prefetto ma un capitano della Regia Guardia di Finanza. Con sprezzo del ridicolo, non si limita ad arruolare Dante nel Partito fascista, ma ne fa un acerrimo nemico dei nemici del regime. Nei versi 76-84 del canto VI del Purgatorio, quello di Sordello, vede “una prima condanna che Dante fa del socialismo, il quale, essendo internazionale, non ammette né confini, né Patria, né il simbolo della Patria stessa, la bandiera; ed ecco una prima affermazione di fede fascista del Poeta, il quale vuole e ama profondamente la Patria, e si lamenta anzi che questa sia senza nocchiero in gran tempesta, precisamente com’era l’Italia prima dell’avvento fascista. Dante dunque è un precursore del fascismo e, se fosse vissuto ai giorni nostri, ci avrebbe onorato sicuramente della sua compagnia, impugnando il manganello contro tutti i socialisti e i comunisti rinnegatori e disgregatori della Nazione…”.

 

Dante sovranista, quindi. E squadrista e picchiatore. Non poteva mancare il Dante antisemita: “Uomini siate e non pecore matte, / sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida!” (Paradiso, V, 80-81) dice Beatrice accogliendo Dante in Paradiso. “Sì che il giudeo – pronto a suscitare e ad approfondire discordie – non si rida di voi”, suona il commento fascista. Non gli importa che nell’Italia di Dante gli ebrei fossero stranieri rispettati e protetti, come lo erano i mercanti provenienti da tutta l’Europa. L’argomento razzista e xenofobo viene introdotto di pari passo con le Leggi razziali del 1938. Accanto alla testata del primo numero quindicinale La Difesa della Razza di Telesio Interlandi (segretario di redazione il giovane Giorgio Almirante) figurava un riquadro che incorniciava due versi (67 e 68) del Canto XVI del Paradiso: “Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade”. Queste e molte altre perle nel saggio centrale de Il Dante “fascista”: Saggi, letture, note dantesche di Luigi Scorrano (Longo editore 2001).  Non tutti sono così beceri. O bischeri, come sogliono dire i toscani. Mussolini forse non approva. Ma neanche smentisce. Un po’ come sinora ha fatto il presidente Meloni. Il ministro dell’Istruzione del Duce, Giuseppe Bottai, non menziona mai Dante nel suo voluminoso Diario. Il suo ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, lo menziona una volta, nel 1938, a proposito dell’ambasciatore di Hitler a Roma, Ulrich von Hassel: “Hassel conosceva troppo bene Dante. Io diffido degli stranieri che conoscono Dante. Ci vogliono fregare con la poesia”. E poi solo un’altra volta, citando Mussolini, il quale, a proposito dell’alto tasso di analfabetismo in alcune regioni d’Italia avrebbe detto: “Anche se fosse? Nel quattordicesimo secolo l’Italia era popolata di soli analfabeti, e ciò non ha impedito che fiorisse Dante”. Sia Bottai che Ciano furono condannati a morte dal tribunale di Salò. Bottai se la cavò. E se la sarebbe cavata anche da una successiva condanna all’ergastolo arruolandosi nella Legione straniera per combattere i tedeschi.

 

Se Dante è fascista, allora gli antifascisti sono contro Dante. Ovvio il sillogismo. A cominciare da “quel filosofo che bestemmia Dante come non fu mai bestemmiato, perché nega quanto c’è di più dantesco nell’opera dantesca, ed è la rappresentazione di un’ideale unità del mondo”. Cioè Benedetto Croce, che aveva agli occhi dei fascisti la colpa imperdonabile di non essere fascista. Mentre gli andava invece bene il fascistissimo ministro dell’Istruzione nei governi Mussolini, Giovanni Gentile. Di tutt’altra tempra, per fare un solo esempio, il grande studioso di Dante Umberto Cosmo, maestro di Piero Gobetti, Norberto Bobbio, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Giulio Einaudi e Palmiro Togliatti ed Antonio Gramsci. Nel 1929 sarebbe stato arrestato per aver scritto, con Franco Antonicelli, Ludovico Geymonat, Massimo Mila e altri, una lettera di solidarietà a Croce, che era stato definito da Mussolini “imboscato della storia”. Lettori attenti e diligenti di Dante furono Gramsci e Togliatti. Anzi, a Dante ricorrevano, l’uno in carcere, l’altro a Mosca alla testa dell’Internazionale comunista, per inviarsi messaggi segreti. Nel settembre 1931, dopo la crisi del 3 agosto che aveva segnato un ulteriore aggravamento della sua condizione di salute, Gramsci scrive alla cognata Tatiana una lunga lettera sul canto X dell’Inferno, quello in cui Dante incontra Farinata degli Uberti, il capo storico dei Ghibellini e Cavalcante de’ Cavalcanti, padre del suo amico poeta Guido. Entrambi sono puniti in quanto eretici, epicurei. Ma Gramsci si scosta da tutte le interpretazioni tradizionali che lo definiscono “il canto di Farinata”. “1. […] Io sostengo che nel X Canto sono rappresentati due drammi: quello di Farinata e quello di Cavalcante, e non il solo dramma di Farinata. 2. […] Cavalcante è il vero punito tra gli epicurei delle arche infuocate, dico il punito con punizione immediata e personale e che a tale punizione Farinata partecipa strettamente, ma anche in questo caso ‘avendo il cielo in gran dispitto’ [in Dante in verità ha “l’inferno a gran dispitto”]. La legge del contrappasso in Cavalcante e in Farinata è questa: per aver voluto vedere nel futuro (teoricamente) sono privati della conoscenza delle cose terrene per un tempo determinato cioè così vivono in un cono d’ombra dal centro del quale vedono nel passato oltre un certo limite e vedono nel futuro oltre un altrettanto limite […]. Si capisce la differenza tra Cavalcante e Farinata. Farinata, sentendo parlare fiorentino ridiventa l’uomo di parte, l’eroe ghibellino; Cavalcante invece non pensa che a Guido e al sentir parlare fiorentino si solleva se [suo figlio…] Guido è vivo o morto in quel momento [...]”.

 

Tatiana passa la lettera a Piero Sraffa, l’amico di Gramsci professore di economia a Cambridge. Sraffa la passa a Togliatti a Mosca. Togliatti risponde, sempre tramite Sraffa e tramite Tatiana: “Faccio seguito alla mia lettera dell’altro giorno per dirvi una cosa che interesserà Nino [Antonio Gramsci]. Quell’amico che aveva detto di aver sentito parlare altra volta della quistione di Farinata [Togliatti] ha fatto delle ricerche e ha trovato che della cosa si parla in un numero di un giornale torinese uscito nel 1918, sotto il titolo ‘Sotto la Mole’, l’articolo scritto da Nino è intitolato ‘Il cieco Tiresia’, e in esso si commenta la notizia che una ragazzina in un paesello d’Italia, dopo aver preveduto la fine della guerra per il 2018, diventò cieca […]. Il ricordo divertirà certo Nino. Scrivetemi, cordiali saluti”. Per Gramsci non è solo una scusa per dialogare con Togliatti. Altrimenti non avrebbe chiesto a Sraffa di inoltrare le sue note sul Canto X anche al suo professore Umberto Cosmo. Il quale risponde con una lettera a Sraffa in cui gli dice: “Mi pare che l’amico nostro abbia colpito giusto, e qualche cosa che si avvicinava alla sua interpretazione ho sempre insegnato anch’io. Accanto al dramma di Farinata c’è anche il dramma di Cavalcante, e male hanno fatto i critici, e fanno, a lasciarlo nell’ombra. L’amico farebbe dunque opera ottima a lumeggiarlo. Ma per lumeggiarlo bisognerebbe discendere un po’ più nell’anima medievale. Ognuno dei due, Farinata e Cavalcante, soffre il suo dramma. Ma il proprio dramma non tocca l’altro. Sono legati dalla parentela dei figli, ma sono di parte avversa. Perciò non si incontrano. E’ la loro forza come dramatis personae; è il loro torto come uomini”. 

 

Gramsci Cavalcante, Togliatti Farinata? La “quistione” è evidentemente politica. Improbabile che si riduca solo ad una dialettica tra il politico Farinata (che neanche nell’inferno si smuove dalle passioni da capopartito in terra) e il “personale” del deluso Cavalcante (a cui della politica ormai non importa un fico secco e vorrebbe solo sapere di suo figlio). Non giustificherebbe che Togliatti si dia da fare per scovare in biblioteca (nella Mosca di Stalin!) un vecchio numero dell’Ordine nuovo. Lo facevano insieme, Gramsci ne era direttore, Togliatti redattore capo. A Gramsci si attribuisce la rubrica “Sotto la Mole”. Tra loro erano in grado di intendersi. Senza che se ne accorgessero nemici, amici, e nemmeno gli intermediari. Il tema è quello delle previsioni a lungo termine in politica. Della strategia non della tattica. Con Farinata e Cavalcante si discute di storia e futuro. Si tratta di un tema quasi ossessivamente ricorrente nei Quaderni del carcere, dove Gramsci ripensa la grande sconfitta. Ritorna anche in altre forme indirette, allusive, analogiche, come quando ad esempio Gramsci confronta la guerra di movimento, l’attacco frontale “in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta”, alla “guerra di posizione”, “la sola possibile in Occidente”, “in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo”. All’attacco frontale, alla presa del Palazzo d’Inverno, e al dispotismo “cesarista” nelle sue diverse versioni, anche il “socialismo in un paese solo” staliniano, si contrappone la ricerca di una via democratica, di un lungo e paziente confronto politico. Siamo negli anni 30. Ma c’è chi guarda molto più avanti. Che di messaggi in codice si tratti è confermato da una lettera di Sraffa a Togliatti: “Il sistema funziona. E non bisogna lasciarlo cadere: appena avrà finito con Croce bisognerà fornirgli un nuovo argomento […] bisogna naturalmente trovare un argomento il cui contenuto politico possa essere fatto passare sotto veste di letteratura”. Ci sono due cortine da superare: la censura carceraria fascista e la censura dei servizi staliniani. 

 

Ma torniamo a Dante. E’ di destra o di sinistra? Dire che Dante è “conservatore” è ovviamente una scemenza. E per giunta una scemenza tutt’altro che innocente nel momento in cui a una sorta di internazionale conservatrice (da Trump – ma anche Ron DeSantis – a Bolsonaro, da Modi a Orbán) amano far riferimento tutte le destre del mondo. Negli anni 30 le destre e gli autoritari di mezza Europa non avevano imbarazzi a vedersi apparentare ai fascisti. La cosa incomprensibile è il riflesso da cane pavloviano di alcuni post-fascisti nazionali che avrebbero invece tutto l’interesse a scrollarsi di dosso le imbarazzanti radici. Vien da chiedersi se ci sono o ci fanno. Quando poi, per rimediare lo strafalcione su Dante conservatore, si ricorre al fascista Gentile e a Oswald Spengler, grande ammiratore di Mussolini (lo definì “un vero Cesare”, rispetto a Hitler “solo capo-popolo”), viene da dire, alla maniera dei padovani: Xe pèso el tacòn del buso, peggio la toppa del buco. Così come sarebbe pura cretineria dare a Dante del comunista perché è influenzato dalle utopie egualitarie dei francescani e dell’abate Gioacchino da Fiore, e perché il suo Paradiso sarebbe “finalmente comunismo in atto, da proprietà privata liberato”. O dargli dello “stalinista” perché gli piace, di fronte allo scempio delle fazioni e dei partiti, l’autorità di un solo monarca. Scorro i titoli degli scaffali “danteschi” della mia biblioteca. Così, a casaccio, mi soffermo su Dante profeta, su un Dante rivoluzionario, su Il linguaggio segreto di Dante, su Dante Hérétique, Revolutionnaire et Socialiste. Révélations d’un Catholique (troppa grazia!), sul bellissimo Firenze e il Profeta. Dante tra teologia e politica di Elisa Brilli, sul Dante reazionario di Edoardo Sanguineti (che non ha assolutamente nulla a vedere con quel che crede il nostro ministro della Cultura). E, ancora, il Dante di T.S. Eliot, la cui Terra desolata nasce dall’inferno delle trincee della Grande guerra e il Dante di Osip Mandel’stam, che conobbe e morì nell’inferno dei Gulag staliniani. Tra le aggiunte più recenti: Dante e la libertà di Luciano Canfora (Solferino, 2023) e Dante “compagno di strada”. Edoardo Sanguineti e il “romanzo” della commedia di Lorenzo Resio (edizioni dell’Orso, 2021) con un’edizione critica della tesi, introvabile, di Sanguineti sui Canti di Malebolge (dal XVIII al XXX dell’Inferno) che accoglie ogni risma di barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia e scismatici, falsari, truffaldini (un campionario delle nostre cronache quotidiane, si direbbe). Non basterebbero tutte le pagine di questo giornale per elencare quel che è stato scritto su Dante politico. Ma da quel poco che ho letto mi pare che su una cosa non ci piova: Dante era partigiano, uomo di parte, di partito. Ce l’aveva con gli ignavi, gli indifferenti, esattamente come ce l’aveva Gramsci: “Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

 

Sì, ma di quale partito? “Si può, in questo argomento dire tutto ciò che si vuole. In realtà Dante, come egli stesso dice ‘fece parte per se stesso’ […] il suo settarismo e la sua partigianeria sono d’ordine intellettuale più che politico in senso immediato. D’altronde la posizione politica di Dante potrebbe esser fissata solo con un’analisi minutissima non solo di tutti gli scritti di Dante stesso, ma delle divisioni politiche del suo tempo che erano molto diverse da quelle di cinquant’anni prima” (Quaderni 4, par. 83). Così Gramsci, in polemica con l’interpretazione “superficialissima” di Vincenzo Morello che nel suo Dante, Farinata, Cavalcanti dibatteva l’annosa questione del guelfismo o ghibellinismo di Dante. L’altra cosa su cui non ci piove è che Dante ce l’aveva soprattutto con quelli della propria parte. Il suo partito erano i guelfi bianchi “la compagnia malvagia e scempia / con la qual tu cadrai in questa valle; / che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr’a te”, per dirla con il suo avo Cacciaguida nel XVII del Paradiso. I suoi guelfi bianchi si sbranavano con i guelfi neri e con i ghibellini “nostalgici”. Tutti corresponsabili di aver portato allo sfascio la sua Firenze e la sua Italia. Quanto a “un’analisi minutissima delle divisioni politiche del tempo di Dante”, c’è il Dante rivoluzionario borghese: Per una lettura storica della Commedia del filologo dell’Università di Utrecht Mario Alinei (PM edizioni 2015) che documenta in modo comprensivo le tappe della partecipazione di Dante alla politica della sua Firenze, alle sue istituzioni, compreso il Consiglio dei Trentasei il cui compito (fallito) era “garantire una pace stabile basata su un accordo bipartitico tra guelfi e ghibellini”, insomma, una specie di “compromesso storico”. Garantisco: il libro riserva sorprese ai dantisti improvvisati.

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