(foto LaPresse)

L'accordo dell'Oca

Salvatore Merlo

Rendere presentabile l’impresentabile riforma di Bonafede senza abolirla. Non era facile. E infatti non è accaduto

Roma. “No, ma che pasticcio? Che dite?”, s’inalbera il dirigente del Pd cui per simpatia (e commiserazione) garantiamo l’anonimato. Lui è uno di quelli che hanno seguito la cosiddetta mediazione sulla riforma della prescrizione. Sa tutto. “Ascolta bene”, ci dice. “Ho fatto un calcolo. Il 30 per cento dei processi in Italia si conclude con un’assoluzione in primo grado. Del restante 70 per cento di processi, il 20 per cento va in assoluzione al secondo grado. Questo significa che abbiamo salvato dalla norma Bonafede almeno la metà degli italiani che vanno a processo”. E l’altra metà? Ecco, l’altra metà casca male. Come ben si vede questa mediazione Pd-M5s è uno di quei casi di “cetriolo globale” a suo tempo descritti da Corrado Guzzanti.

 

In pratica, per frenare Alfonso Bonafede (Dj Fofò) che la cancellava proprio, hanno trasformato la prescrizione, cioè un istituto di civiltà nato per porre un limite temporale alla potestà punitiva dello stato, in una specie di gioco dell’Oca o del Monopoli. “Un arzigogolo probabilmente incostituzionale” , dice il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. Ecco. Adesso il lettore (giocatore) stia bene attento. È sempre nell’inafferrabilità bizantina che si nasconde il pasticcio italiano: per gli assolti in primo grado, la prescrizione procede normale. Per i condannati, la prescrizione si blocca dopo il primo grado. Se il condannato subisce una nuova condanna in Appello, a quel punto la prescrizione si congela definitivamente. Ma se invece il condannato viene assolto in appello potrà saltare di colpo tutte le caselle della prescrizione per cui era stato fermo. Se il lettore non ci ha capito molto, non si preoccupi, è naturale, visto che l’arduo scopo è quello di rendere presentabile l’impresentabile riforma di Fofò-Bonafede (senza abolirla). “Il Pd non riusciva a fermare una boiata pazzesca dei grillini, la situazione era politicamente insostenibile, nessuno voleva perdere la faccia, e questo stratagemma involuto è la soluzione che hanno trovato”, sintetizza Gennaro Migliore, ex sottosegretario alla Giustizia e deputato di Italia viva. A riprova che secondo la mentalità italiana la via più corta tra due punti è… il nodo sabaudo. “Abbiamo cambiato la riforma Bonafede all’ottanta per cento”, dice infatti entusiasta l’ex ministro Andrea Orlando, del Pd. Ma il problema – ammesso che le percentuali siano queste – rimane proprio quel venti per cento che, secondo gli stessi calcoli del Pd, corrisponderebbe all’incirca alla metà dei processi italiani che saranno comunque sottoposti al “trattamento Bonafede”, ovvero alla cura medievale (come nella scena di “Pulp Fiction”) del fine processo mai.

 

“Sì va bene, ma noi poi approviamo un’altra riforma che accelererà i processi”, dice a questo punto il solito dirigente del Pd, cui ovviamente garantiamo anonimato a sua tutela (anche da se stesso). Il nostro dirigente si riferisce al famoso ed evanescente intervento “complessivo” sul processo penale che dovrebbe garantire tempi più rapidi e certi attraverso modifiche non ancora meglio precisate. A pensarci bene il fenomeno è, anche questo, grottesco. E’ come se il Pd dicesse: “Lo so, dalla cucina di Bonafede escono solo piatti immondi, ma voi non vi preoccupate, adesso vi mangiate questa schifezza della prescrizione ma domani sera facciamo venire un cuoco da fuori, uno che se ne intende sul serio, e cenerete prelibatamente”. Non resta che sperare. “Ma non si capisce allora perché non si possa fare il contrario”, obietta Migliore. “Prima approviamo la riforma meravigliosa che velocizza il processo penale, e poi ci occupiamo della prescrizione”. Troppo facile così. Il confronto deve invece realizzarsi secondo il sistema italiano classico, ossia mediante laboriosissimi tira e molla, aggiustamenti, palleggiamenti e pasticci. Sennò si perde tutto il bello della faccenda, che consiste proprio nell’andare a naso alto, mento in fuori, occhi socchiusi, profilo sorridente – insomma tipo Bonafede – sovraesponendosi così ai beffardi precipizi e alle crudeli voragini che si spalancano lungo la strada della realtà. Diceva ieri, su questo giornale, l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, intervistato da Annalisa Chirico: “Non ci sarebbe nulla di disonorevole nel rivedere una scelta non sufficientemente meditata, dopo aver preso atto delle argomentate critiche. La politica deve trovare la forza di abbandonare il politichese di ‘chi ci perde la faccia’ e anche quello di chi vuole apporre una bandierina”. Molto giusto. Ma non funziona così. La godibilità di un gioco da tavolo infatti non dipende dal merito, ma dal ritmo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.