Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Ecco come Pd e M5s hanno trasformato il futuro di Ilva in un referendum su Conte

Valerio Valentini

Il Pd deluso dalla non capacità del premier di ammorbidire il M5s, il M5s preoccupato da un passo indietro sullo scudo. Scenari

Roma. Non sapendo bene come affrontare la grana, ha pensato bene di non affrontarla per niente. O, quantomeno, di non mettere la sua faccia su questo fallimento annunciato. Ed è per questo che, finché ha potuto, Giuseppe Conte ha evitato di parlare dell’Ilva. “Rispetto delle rispettive prerogative”, dicono a Palazzo Chigi, sottolineando che della questione se ne è sempre occupato il Mise. “Eppure su altre questioni non ha certo temuto di apparire troppo protagonista”, sbuffa il leghista Edoardo Rixi, che ricorda come ad esempio, nella baruffa del maggio scorso sulla Tav, l’intervento da leguleio dell’“avvocato del popolo” era comunque valso ad evitare il patatrac. E invece, stavolta, non è andata così e alla fine Mittal ha avviato davvero la procedura di recesso con cui ha riconsegnato l’acciaieria di Taranto ai commissari. “C’era da augurarsi che Conte, al quale molti guardano come al volto di un grillismo ragionevole – dice Chiara Gribaudo, del Pd – sulla vicenda Ilva riuscisse a mediare con le ali più oltranziste del M5s, indurre a più miti consigli chi vagheggia soluzioni irrealistiche. E invece si è dovuto arrendere anche lui all’ideologismo del movimento”. E d’altronde anche dai vertici del Nazareno, riuniti da Zingaretti in mattinata a Montecitorio, filtra la stessa delusione “per un premier che non si spende come dovrebbe per la stabilità dell’esecutivo”. Né avrebbe potuto farlo, in questo passaggio. “Perché qui non si tratta di minoranze”, tuona il senatore grillino Mario Giarrusso. “Quando mettemmo ai voti l’emendamento contro lo scudo penale, in assemblea, su 80 presenti in 72 lo approvammo. Era chiaro che i Mittal sono venuti a Taranto per saccheggiare, non per fare impresa. Conte non avrebbe potuto fare un bel niente, per convincerci del contrario”. 

 

E forse proprio perché consapevole dell’impossibilità di deviare il corso disgraziato degli eventi, Conte ha provato ad apparire il meno coinvolto possibile. Anche per questo Matteo Renzi lo ha stanato con un tweet di apparente sostegno. “Quando Conte dice che Mittal deve onorare il contratto, noi stiamo con il premier”. E a rendere più esplicite le intenzioni del leader di Italia viva ci pensa un suo fedelissimo alla Camera. “Vogliamo che anche Conte – dice Cosimo Ferri – si assuma la sua responsabilità rispetto all’inadeguatezza del Mise. Il premier avrebbe dovuto assumere la delega su questa crisi d’impresa”. Non lo ha fatto. E anzi, mercoledì Conte si è presentato al vertice decisivo a Palazzo Chigi con Lakshmi e Aditya Mittal insieme al sottosegretario Mario Turco, quello a cui lui stesso, in nome di una pregressa stima personale, aveva assegnato le redini della Programmazione economica del governo, nonostante le sue mai rinnegate convinzioni da “No Ilva” militante. E non a caso le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Turco al Foglio, il 24 ottobre scorso, quel suo auspicare “una Taranto senza acciaieria”, sono state contestate da Mittal nell’atto di citazione contro l’amministrazione straordinaria di Ilva, cioè contro il governo.

 

E del resto il sospetto non è certo venuto solo all’azienda franco-indiana. Il sospetto cioè che il fallimento della trattativa, e il conseguente abbandono dell’acciaieria, sia l’obiettivo recondito a cui mira la parte grillina del governo. A insinuare il dubbio c’è stata la prima reazione, a suo modo sorprendente, di Conte al comunicato di guerra di Mittal, due giorni fa. Quando, cioè, il premier è sembrato limitarsi a prendere atto del fatto che l’azienda cercasse un alibi per scappare (“Lo scudo penale non era nel contratto”, aveva replicato il premier) anziché impegnarsi a rimuovere quell’alibi. Ipotizzando un’estensione dell’esimente penale erga omnes, come proposto dal ministro del Sud Giuseppe Provenzano, o più semplicemente reintroducendo lo scudo penale ad hoc su Ilva, come invocato dai renziani. La tentazione grillina, invece, resta sempre la solita: la nazionalizzazione. “Abbiamo messo soldi pubblici in tante aziende, perché non dovremmo metterli sull’Ilva, per garantire un processo di riconversione?”, dice la deputata Rosalba De Giorgi, grillina tarantina. 

 

Non è detto che Conte assecondi questa strategia. Quel che è certo è che invece, stavolta, il mantello del supereroe che salva l’Italia da due procedure d’infrazione e si prende i complimenti dell’amico Trump non potrà sfoggiarlo. E forse qualche spiegazione dovrà fornirla anche a quello che più di tutti lo ha protetto e sostenuto, nei mesi passati, quel Sergio Mattarella che, come riferiscono i suoi collaboratori, segue la vicenda di Taranto “con apprensione” (formula di rito che, nel sempre calibratissimo gergo quirinalizio dell’èra mattarelliana, sottintende qualcosa di più della semplice preoccupazione). L’altro ipotetico sponsor di Conte, invece, della faccenda si è proprio lavato le mani. Luigi Di Maio prima ha abbandonato il ministero da cui si vantava di avere “risolto in tre mesi la vicenda dell’Ilva che quelli di prima non erano stati capaci di risolvere in sei anni”; poi, nei giorni decisivi, è volato in Cina, da cui è tornato solo ieri pomeriggio, a cose fatte, senza nel frattempo rilasciare neppure una dichiarazione, senza neppure aiutare il suo successore Stefano Patuanelli a gestire la fronda parlamentare.

 

E sì che un anno fa, alla Fiera del Levante, Conte aveva pubblicamente ringraziato il suo vice Di Maio, che “a gara già aggiudicata è riuscito ad ottenere dei miglioramenti straordinari per l’Ilva e per Taranto. Non si poteva fare di più”, esultava il premier. Il cui presunto mito d’infallibilità s’infrange ora proprio sui cancelli dell’acciaieria pugliese. Il che, forse, è una notizia positiva per tanti, se non per tutti, nella maggioranza. Almeno a giudicare dalle parole del leghista Giancarlo Giorgetti, che da giorni va ripetendo che “l’unico modo che Pd e M5s hanno, per potere andare avanti, è sostituire Conte con una personalità più forte”.

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