Piazze che possono parlare

Roberto Maroni

La svolta possibile di Salvini, il modello di Renzi. In Italia è stato piantato il seme di un progetto ambizioso che vede i due Mattei avversari ma alleati nella ricerca di una nuova egemonia. E se le strade convergessero?

Due piazze contrapposte, due leader giovani e ambiziosi, due mondi che si osservano con apparente ostilità e qualche conturbante ammiccamento. La piazza della Leopolda di Matteo-R e quella romana di Matteo-S (in ordine alfabetico, non di importanza…) rappresentano una novità non da poco nella politica di oggi e – soprattutto – in quella che presto arriverà. Lo show di “Porta a porta” non è stato solo lo specchio dell’ego narcisistico. Nella “Terza Camera” è stato piantato il seme di un progetto ambizioso di leadership futura, che vede i due Mattei diversi ma simili, avversari ma alleati nella ricerca dell’egemonia (rottamatoria) nei rispettivi campi: Renzi nei confronti del vecchio mondo di sinistra-centro guidato da un gruppo dirigente troppo timido, Salvini verso quel centrodestra berlusconiano ormai decrepito che lui considera già in archivio, nonostante la presenza, in piazza, di tutti gli storici attori.

 

Non a caso Salvini ha sparigliato con la professione di fedeltà all’euro, e Renzi alla Leopolda ha ingaggiato (pensate un po’) i guru della campagna di Trump. Chissà quindi che non abbia ragione il direttore Cerasa, che sabato scorso sul Foglio ha lasciato intendere che in un futuro non troppo remoto non è da escludere un accordo Renzi-Salvini (di combinazioni strane in fondo ne abbiamo viste tante, no?) per formare un governo del super-cambiamento capace di rottamare quel che resta della classe politica di oggi. Incontri ravvicinati del terzo tipo? Vedremo.

   

Salvini ha sparigliato con la professione di fedeltà all’euro. Renzi alla Leopolda ha ingaggiato i guru della campagna di Trump

Ma intanto occupiamoci del presente. Le sorti della maggioranza gialloverde e del suo governo (e dal mio punto di interesse del centrodestra) le vedremo con nettezza fra tre mesi: a gennaio 2020. E qui attenzione a due date: il 20, quando la Corte costituzionale deciderà sull’ammissibilità del referendum propositivo del sistema elettorale maggioritario puro, promosso dalla Lega, e sottoscritto da quasi tutti i consigli regionali di centrodestra, e il 26 gennaio, quando si voterà in Emilia-Romagna.

 

Personalmente considero il voto in Umbria, tra una settimana, meno influente, e magari è possibile che il Pd perda quella storica regione rossa. Ma sarà in fondo un altro momento di transito come gran parte di ciò che contraddistingue la politica in questi giorni, dove da entrambe le parti, governo e opposizione, vediamo molta tattica e molta propaganda. Si nota qualche tentativo di definire una strategia chiara sulle future alleanze e sul controverso rapporto con l’Unione europea, ma c’è ancora tanta nebbia e poca lucidità. Naturalmente poi la politica stessa è sempre pronta a smentirti, basta un’imboscata parlamentare, basta un’intercettazione maligna o un’inchiesta, un qualsiasi incidente a capovolgere tutto. Ma la tendenza e la volontà delle due parti è di arrivare intanto al crocevia di gennaio. Che però per Salvini sarà ben più di un crocevia: perché lui lì tenterà di giocare e vincere la partita di ritorno di quella persa clamorosamente ad agosto, partita che aveva in ballo (lo ha rivendicato lui) i pieni poteri: sul governo e ovviamente sul centrodestra, un centrodestra o forse una destra-destra che nelle sue intenzioni sarà un partito, o meglio un movimento, quasi monolitico, poco moderato, orbitante intorno a lui stesso e con scarsissimo spazio per pochi satelliti. E, aggiungo io, con una classe dirigente in buona misura inedita, con poco spazio per la Lega che molti di noi hanno fondato e via via vissuto e visto evolversi in questi decenni; dunque un personale politico, e mediatico, quasi tutto nuovo, come abbiamo già visto nei 14 mesi del governo gialloverde.

 

Sarà in Emilia-Romagna, dove si voterà il 26 gennaio, che vedremo se è in arrivo sulla politica italiana un altro meteorite

Così dopo il meteorite salviniano che si è abbattuto sulla politica italiana l’8 agosto, con il tentativo non riuscito di rovesciare il governo al quale la Lega partecipava, andare alle elezioni e aprire le porte alla “Repubblica del cambiamento”, sarà in Emilia-Romagna che vedremo se è in arrivo sulla politica italiana un altro meteorite. Se l’attuale governatore Stefano Bonaccini, candidato sulla carta molto forte, dovesse perdere, credo che accadrà come nel 2000, quando Massimo D’Alema fu costretto a dimettersi da Palazzo Chigi dopo la sconfitta nelle regionali. Neppure questa volta il partito reggerà, e il governo dove tra l’altro a Palazzo Chigi non c’è un D’Alema ma Giuseppe Conte, io penso che possa cadere. In quel caso si potrebbe andare alle urne per il Parlamento nazionale di lì a poco, probabilmente a giugno 2020.

 

A quelle elezioni, con buona pace degli accordi stretti in questi giorni con Fratelli d’Italia e quel che rimane di Forza Italia, Salvini andrà in pratica da solo, come dominus, presentandosi stavolta non come “uomo del fare” ma come trionfatore “sul governo dei poltronari”. E questa volta, facendo tesoro dei suoi errori recenti, potrebbe essere una vittoria ben più che totale e la possibilità è quella di chiudere la Seconda Repubblica mandando in archivio gli ultimi 25 anni dando corso a un ricambio generazionale mai visto. Se invece Bonaccini verrà confermato in Emilia, magari con qualche accordo tra Pd e i Cinque stelle, e la sinistra segnerà il secondo punto pesante dopo la vittoria quasi casuale dello scorso agosto, allora accadranno due cose. 

 

La prima riguarda il governo, che andrà avanti senza dubbio fino a febbraio 2022 (quando dovrà essere eletto il successore di Sergio Mattarella al Quirinale), e probabilmente fino al 2023. La seconda è che tutto questo costringerà Salvini a rivedere sul serio la sua strategia, e il centrodestra, altrettanto seriamente, a riorganizzarsi. Anzi, a rifondarsi, abbandonando nazionalismi e statalismi per dedicarsi a un europeismo non prono in economia, e per quanto riguarda la Lega al rilancio (è il mio auspicio) di un federalismo competitivo e virtuoso, cioè aggiornato al mondo di oggi. Il che dal mio punto di vista è una cosa positiva, perché sono tra quanti credono che il centrodestra abbia un forte e urgente bisogno di un ritorno al futuro. Certo, da leghista mi auguro che la Lega non venga sconfitta dalla sinistra in Emilia-Romagna né altrove: ma sempre da leghista sono egualmente convinto che di un centrodestra 4.0, chiaramente da ridisegnare, ci sia la necessità se si vuole mantenere l’Italia nella lista dei paesi economicamente e socialmente più avanzati.

 

Come ho detto, fino a gennaio prossimo saranno principalmente propaganda e tattica, basate su scaramucce come il reddito di cittadinanza andato alla brigatista Federica Saraceni, corresponsabile dell’omicidio di Massimo D’Antona (ma da Forza Italia fanno polemicamente notare che la Lega si oppose assieme agli allora alleati grillini al suo emendamento che escludeva i terroristi da quel beneficio). Poi c’è stata la pensata di qualcuno di allungare i tempi del taglio dei parlamentari promosso dai Cinque stelle, magari con uno “sciopero dell’aula di Montecitorio”, riedizione riveduta e corretta dell’Aventino dei tempi che furono. Certo, con la riduzione a 600 di deputati e senatori si dovrà fare una nuova legge elettorale, vanificando dunque la possibilità di elezioni anticipate. Ma anche qui è stato commesso lo stesso errore di agosto: annunciare in anticipo il blitz, dando quindi il tempo alla maggioranza di organizzarsi. E allora è utile tornare proprio ad agosto, a quel primo meteorite.

 

Il leader della Lega voleva, come vuole tuttora, capitalizzare voti
e popolarità senza condividerli con il vecchio centrodestra, che anzi intende mandare in soffitta. Da qui la decisione del giugno 2018 di andare
a governare con un partito, il M5s, che mai era stato al governo nazionale
 

 

Fino a due mesi e mezzo fa Salvini aveva fatto un’operazione straordinaria sul piano del consenso, che è per ogni partito la premessa per realizzare i propri obiettivi. In democrazia se non hai consenso non conti; e se non conti, anche se vai al governo, non riesci a fare gran che di quello hai promesso ai tuoi elettori. Nel caso della Lega, però, questa premessa doverosa si rivela per ora necessaria ma non sufficiente: eppure Salvini aveva ottenuto, in termini di voti e popolarità, ciò che non era mai riuscito a nessuno tra noi, né a Umberto Bossi né al sottoscritto, mentre era riuscito a Silvio Berlusconi quando fondò un partito, anzi due, Forza Italia e successivamente il Pdl, portandolo i suoi consensi da zero al 30 per cento. E fin qui per Salvini è stata la sua fase uno.

 

La fase due, dopo avere ottenuto molti voti alle politiche del 2018, è stata di andare al governo. Cosa che non era obbligatoria: la Lega risultò infatti il terzo partito dietro ai Cinque stelle e al Pd. Salvini poteva con il suo 17 per cento starsene buono e tranquillo, lasciare che si costituisse già allora un governo giallorosso, oppure concordare sul ritorno alle urne alle quali pare si fosse rassegnato anche il capo dello stato, oppure insistere nel tentativo di costituire un governo di centrodestra assieme agli alleati con i quali si era presentato alle elezioni. Salvini però decise di sparigliare e fare il governo con i grillini. Ci stava, in quel momento: lui voleva, come vuole tuttora, capitalizzare voti e popolarità senza condividerli con il vecchio centrodestra, che anzi intende mandare in soffitta. Da qui la decisione del giugno 2018 di andare a governare con un partito, il M5s, che mai era stato al governo nazionale. Una sfida complicata, ma che a Salvini piaceva: voleva far valere la maggiore esperienza e capacità di governare nei confronti di nuovi partner che sulla carta avevano il doppio dei suoi voti; e inoltre portare al governo una Lega che lui ha nel frattempo profondamente trasformato e plasmato a propria immagine, da tradizionale partito delle istanze e degli umori del nord e della parte produttiva dell’Italia, la vecchia Lega Nord si è trovata trasformata in qualcosa di totalmente nuovo: la Lega Italia. Il motto del congresso che mi elesse segretario nel 2012, e che avevo inventato io, era “Prima il nord”. Salvini lo ha mutato in “Prima gli italiani”. Questa sfida Salvini la poteva perdere, oppure elettoralmente parlando poteva lasciare sul campo tante vittime specie nel nord. Invece in quel periodo magico, culminato nelle elezioni europee di maggio, lui l’ha vinta.

 

A giugno 2018, quando la Lega va al governo con i Cinque stelle, lo slogan era “governo del cambiamento”. E cambiare era in effetti l’obiettivo di Salvini. Lo ha fatto, come ho detto, intanto con la Lega, cambiandone i connotati: da Lega Nord a “Lega per Salvini”. Il secondo cambiamento lo ha fatto dopo le politiche 2018, rompendo l’alleanza di centrodestra. Il terzo cambiamento lo ha fatto portando al governo e in posti di responsabilità persone che (a eccezione di Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia) non avevano maturato grande esperienza: pur avendo la Lega persone che la capacità e l’attitudine al governo l’avrebbero avuta. I Cinque stelle no, ne erano sprovvisti; ma la Lega sì. Dunque allora Salvini ha cambiato gli schemi, le logiche, le prassi, l’impostazione politica, il modo di amministrare. E questa è stata la sua fase uno.

 

La fase due è rappresentata da quei 14 mesi di governo nei quali ne sono successe di tutti i colori. E quello che è accaduto ha poi direttamente portato Salvini a fare l’operazione di agosto, che invece non gli è riuscita. Non gli è riuscita per una serie di valutazioni che non si sono concretizzate, e anche per un paio di errori che hanno impedito la realizzazione del suo disegno. Se gli fosse andata bene, Salvini avrebbe iniziato la fase tre. Che era semplicemente “governo io, da solo”. I pieni poteri, appunto.

 

Un paio gli errori fatali. Il primo è stato quello di contare sul cosiddetto
rito romano: i politici, specie quelli avversari, che ti dicono “fidati”.
Il secondo, di dare alla politica romana il tempo di trovare l’accordo anti Lega. “Quando muovi, sii rapido come il vento”, diceva Sun Tzu

 

Questa terza fase non è decollata e sappiamo perché: l’8 agosto, quando Salvini dice a Giuseppe Conte “andiamo subito in Parlamento per prendere atto che non c’è più una maggioranza, e poi al voto”, sulla politica italiana piomba quel meteorite. Imprevisto e imprevedibile come tutti i meteoriti, che a somiglianza di quello che qualche milione di anni fa scompigliò la terra dominata dai dinosauri e permise l’evoluzione di noi mammiferi, ad agosto nelle intenzioni doveva distruggere il quadro politico come l’avevamo inteso da anni, per dare luogo a qualcosa di radicalmente nuovo. Nessuno aveva previsto quel meteorite, io per primo pensavo a una scossa tellurica che avrebbe poi portato a un assestamento. Come molti di noi, e nello stesso gruppo dirigente della Lega, ero infatti convinto che Salvini avrebbe portato all’incasso le tre straordinarie vittorie ottenute nei mesi precedenti: le elezioni europee, il decreto sicurezza e la Tav. Portare all’incasso voleva dire chiedere (e di sicuro ottenere) per la Lega il ministero delle Infrastrutture, che è un posto realmente strategico, mandando a casa l’inconcludente Danilo Toninelli, e prendersi anche il ministero dell’Economia, candidando Giovanni Tria a fare il commissario europeo.

 

Tutto questo era possibile e avrebbe fatto di Salvini, e della Lega, il dominus del governo e della politica italiana, prima ancora di disporre dei famosi pieni poteri. Ma Salvini ha fatto una scelta diversa: porre fine al governo. Una decisione basata su motivi apparentemente solidi, quali l’immobilismo dell’alleato sull’economia, i continui “no” dei grillini alle infrastrutture, la decisione dei Cinque stelle di appoggiare in Europa Ursula von der Leyen che invece Salvini volle all’ultimo contrastare. La fase tre non è partita. Perché? Gli errori fatali sono un paio. Il primo, è stato quello di fidarsi del cosiddetto rito romano: i politici, specie quelli avversari, che ti dicono “fidati”. 

   

 

 

Come ho scritto nel mio libro (“Il Rito Ambrosiano – Per una politica della concretezza”) noi ambrosiani seguiamo un diverso rito. Noi facciamo affidamento su princìpi solidi, che fanno parte della nostra società e del nostro modo di vivere e relazionarci: la concretezza, la capacità di ascolto, la condivisione di strategie e (soprattutto) la stretta di mano finale, che vuol dire davvero “fidati”. E ti puoi fidare. Tutto ciò ha poco a che fare con la ricerca della popolarità quotidianamente esercitata attraverso l’uso ossessivo dei social. Col rischio (come si è visto) di perdere la partita, passando da leader a follower. Il secondo errore fatale è stato di dare alla politica romana il tempo di trovare l’accordo anti Lega. Salvini non ha seguito, anche questo l’ho detto, l’insegnamento di Sun Tzu, generale e filosofo cinese, che nell’“Arte della guerra” diceva ai suoi colonnelli: “Quando muovi sii rapido come il vento”.

 

Il 13 agosto, quando il Senato decide che l’audizione di Conte si fa il 20 e non il giorno dopo come lui aveva chiesto, Salvini doveva fare una cosa: ritirare la delegazione leghista dal governo, il che avrebbe costretto Conte a salire al Quirinale il 13 sera, senza quei sette giorni (e quelle sette notti, che nel rito romano valgono più dei giorni) per tentare di raccogliere una maggioranza diversa ed evitare le elezioni. Tutto questo ha consentito, soprattutto, la resurrezione in stile Lazzaro dell’altro Matteo, Renzi appunto. Quando ha capito che c’erano sette giorni e sette notti per trovare un accordo, Renzi ha giocato la partita con rapidità e spregiudicatezza, si è di fatto impadronito del tavolo di gioco sfilandolo a Salvini e a Zingaretti. Renzi voleva tornare in pista e c’è riuscito, voleva neutralizzare le perplessità e le eterne cautele del gruppo dirigente del Pd e del suo segretario e c’è riuscito. Voleva dimostrare che Salvini non era imbattibile, ed è riuscito anche in quello. Renzi è stato il vero arbitro della partita agostana. E ora? Che succederà? Sarà quella di Renzi & C. una vittoria di Pirro o una vittoria vera? E che cosa è meglio per il paese, per noi del centrodestra, e mi spingo a dire anche per il centrosinistra?

 

La data chiave è, come ho detto, il 26 gennaio, voto in Emilia-Romagna. Ma non dimentichiamo l’altra data, la prima, il 20, quando la Consulta si riunirà per decidere sulla richiesta di riforma elettorale maggioritaria promossa dalla Lega, con l’abolizione della attuale quota proporzionale. Quella decisione va vista alla luce delle ultime delibere della Corte costituzionale, che invece sono tutte in senso proporzionalista. E poi arriveremo al 20 gennaio con il Parlamento tagliato di 350 parlamentari a partire dalla prossima legislatura, con la distanza tra gli elettori e gli eletti che sarà ancora maggiore. Con in più l’assenza di una legge elettorale immediatamente auto-applicativa, in caso di accoglimento del referendum e del suo successo, un vuoto che la Consulta non ha mai accettato. Dunque il percorso è incerto, e non è detto che l’uno-due riesca a Salvini. Mentre è detto che se gli riesce nulla potrà più fermarlo.

 

Il mondo delle imprese che producono pil e lottano quotidianamente nell’economia globale chiede una vera discontinuità  con il passato, nella quale l’uomo forte c’entra poco, mentre c’entrano l’abbandono dell’assistenzialismo e dell’idea che tutto sarebbe possibile senza la perfida Europa

Che cosa accade in questo caso l’ha già detto lo stesso Capitano: pieni poteri, nascita di un centrodestra profondamente diverso da quello berlusconiano, sfida potente alle oligarchie europee. E’ una prospettiva che piace a molti elettori e che seduce anche una parte dell’establishment. Ma che spaventa altri, preoccupati della possibile reazione dei mercati e – soprattutto – della probabile ostilità della Commissione europea. Se per esempio leggiamo l’esemplare discorso di Carlo Bonomi all’assemblea di Assolombarda alla Scala di Milano – un discorso al quale il centrodestra che intendo io dovrebbe ampiamente ispirarsi – vediamo che ciò che chiede la nostra migliore imprenditoria è una cosa diversa, che esula dal conflitto tra i partiti e (in vero stile ambrosiano) fa proposte concrete al governo in carica (a prescindere dal colore politico) e alla classe politica nel suo insieme, maggioranza e opposizione. Il mondo delle imprese che producono pil e lottano quotidianamente nell’economia globale, attraverso la voce dei suoi leader, chiede una vera discontinuità con il passato, nella quale l’uomo forte c’entra poco, mentre c’entrano l’abbandono dell’assistenzialismo, dello statalismo in stile salvataggio Alitalia, dell’uso del debito pubblico per creare consenso personale, dell’idea che tutto sarebbe possibile senza la perfida Europa. Bonomi ha criticato Donald Trump per l’uso ad personam dei dazi, e ha elogiato Mario Draghi per avere salvato l’euro e per non avere mai smesso di spronare i governi a fare le riforme. E giustamente ha detto al premier Conte, presente all’assemblea di Assolombarda, di non vedere molta discontinuità tra i provvedimenti del suo precedente governo gialloverde e le promesse del suo attuale governo giallorosso.

 

Sono convinto che tutte le proposte, le sollecitazioni e le richieste che vengono dai ceti produttivi (del nord e non solo) debbano trovare ascolto da parte del governo. Questo significa che chi ha responsabilità importanti, i ministri in primis, deve sottoporsi a un esercizio di umiltà che passa attraverso la consapevolezza di non avere il dono della scienza infusa, di essere al servizio della comunità dei cittadini e che un eccesso di testosterone può fare acquisire tanti like sui social ma difficilmente trova le soluzioni giuste ai problemi della vita reale. E’ l’atteggiamento che ho sempre avuto io quando ho ricoperto cariche istituzionali.

 

Quando sono diventato per la prima volta ministro dell’Interno, e vicepresidente del Consiglio, nel 1994, ho avuto troppo pochi mesi per capire un meccanismo complesso come il Viminale. Ho però compreso che non era il caso di atteggiarmi a superman. La seconda volta nel 2008 mi sono preso il tempo per imparare, e ricordo che ogni pomeriggio veniva da me il capo dell’ufficio stampa per ricordarmi che “entro le 18” (!!!) dovevo dargli una notizia, per poterla comunicare in tempo utile ai telegiornali della sera e ai giornali del giorno dopo. Un altro mondo rispetto alla comunicazione ossessivamente social dei nostri giorni, che comincia al mattino presto e finisce a notte fonda. Ma il mio comportamento così riservato era dovuto alla consapevolezza che il Viminale non è solo responsabile della sicurezza nazionale, ma è anche inserito in uno schema più complesso a livello internazionale, in primo luogo il sistema di intelligence, dove i comportamenti contano e le escandescenze non sono ammesse. Nei tre anni del mio mandato, lo ricordo con orgoglio, feci approvare dal Parlamento due decreti sicurezza, con norme importanti che aumentarono sequestri e confische di beni dei mafiosi, che introdussero il divieto di patteggiamento per i reati di mafia, che consentirono la partecipazione dei sindaci e delle forze di polizia (inclusa quella locale) al controllo del territorio, che stabilirono il carcere obbligatorio per i reati sessuali.

 

Anche nel 2001, approdato al ministero del Lavoro, mi misi subito a studiare con grande umiltà. Mi resi presto conto che il nostro sistema previdenziale doveva essere riformato, perché già allora non reggeva. Così come non reggevano le leggi sul lavoro, ferme agli anni Settanta. Ho ascoltato i consigli di Marco Biagi, politicamente lontano da me e dalla Lega ma riformatore vero. E anche dell’ottimo sottosegretario Maurizio Sacconi, socialista di Forza Italia, un vero riformista. La riforma delle pensioni che portai in Parlamento con il famoso scalone di cinque anni (poi ridotti a tre) e che poi venne abolito dal governo Prodi, rappresentava il primo tentativo di collegare il pensionamento all’innalzamento dell’età media, mentre le leggi sul lavoro ispirate da Marco Biagi istituzionalizzavano i lavori flessibili e i contratti a termine, consentendo ai giovani di entrare nel mondo del lavoro in modo regolare e facendo emergere parecchio nero, dando dignità giuridica a centinaia di migliaia di lavoratori e modo alle aziende di stare al passo con la concorrenza mondiale senza dover ricorrere a contratti finti o al lavoro sommerso. Non fu facile, trovai tantissime resistenze e mi beccai sei scioperi generali in cinque anni (record mondiale!) con in piazza tutte le confederazioni, incluse quelle di destra. Ma se sei convinto delle tue idee (e io da ministro lo ero) non temi la piazza e le polemiche giornalistiche o gli attacchi (anche) personali. E credo di poter dire che quelle riforme hanno fatto guadagnare molto al nostro paese, in termini di pil, di bilancio pubblico, di credibilità internazionale, di tutela dei lavoratori e di sostegno alle imprese. Peccato poi che i governi successivi, per scarso coraggio, cedendo alle pressioni dei portatori di interessi partitici e sindacali, le abbiano in parte ridimensionate.

 

Una cosa che non ho fatto è stata quella di assecondare la politica del “No”. No alle riforme voleva dire (e vuol dire) rimanere fermi alle nostalgie di un tempo che passa con una velocità tripla rispetto a dieci anni fa. Neanche il No euro è convincente. L’euro, con tutte le sue imperfezioni, è la moneta che né il nostro sistema produttivo né la stragrande maggioranza della popolazione potrebbe né vorrebbe più abbandonare. Tantomeno il nord, che vive dei rapporti commerciali, logistici, tecnologici con l’Europa. Le pulsioni anti euro sono parecchio lontane dall’anima vera della Lega, e dalla sua storia, visto che abbiamo sempre guardato oltre confine, all’Europa, in particolare alla Germania e alla Baviera, come vaccino contro l’assistenzialismo romano.

 

Il consenso è volatile, si guadagna
e si perde alla velocità della luce.
La sola cosa da evitare è rintanarci nell’illusione di una autosufficienza autarchica, in un nazionalismo senza respiro che poi non riesce a valicare il Brennero e il Frejus, allontanandoci dall’Europa
e dai mercati

Piuttosto, certe pulsioni nazionaliste (o sovraniste) comportano il rischio di un isolamento europeo, perché dall’idea delle “piccole patrie” in un’Europa federale siamo passati all’alleanza con i lepenisti francesi, gli ultras della destra tedesca, i nazionalisti e conservatori polacchi e ungheresi. I polacchi, poi, sono confluiti in parte tra i conservatori europei, in parte sono rimasti nel gruppo popolare, e dunque l’alleanza sovranista che doveva far saltare l’Europa ha confinato la Lega a Bruxelles in un angolo. Giorgetti ha detto che sarebbe stato meglio per la Lega, come ha fatto Viktor Orbán, aderire al Ppe. Ma lo ha detto troppo tardi. Dopo essere nata sull’onda dell’autonomismo post-ideologico, dopo aver mollato il primo governo Berlusconi per tentare la via rivoluzionaria della liberazione della Padania, dopo aver finalmente seminato il buon federalismo non solo in politica ma nella società e nell’economia, la Lega si trova ora ad affrontare una fase davvero nuova e complicata. Da partito (quasi) egemone di quell’area che si inventò Silvio Berlusconi deve decidere come affrontare le incognite di una possibile lunga traversata del deserto fino alle elezioni del 2023. Con quale strategia? Basterà prendersela con il “governo dei poltronari”? Un governo che magari riuscirà a negoziare con l’Europa flessibilità sui conti pubblici e misure efficaci per la redistribuzione degli immigrati che arrivano in Italia?

 

E poi: statalismo o mercato? Sovranismo esasperato o visione europea? E infine, come riaggregare il centrodestra? Io ovviamente tifo per la Lega, il partito in cui mi onoro di militare dal lontano 1987, ma so anche che non tutto è nelle nostre mani. Io voglio davvero bene a Silvio Berlusconi, ma vedo che Forza Italia è come quelle imprese familiari che non reggono alla prova della seconda generazione. Gli eredi politici di Berlusconi non ci sono, e quelli che c’erano lui li ha tutti cacciati. Noi leghisti il passaggio generazionale siamo riusciti a farlo, con innegabile successo (di leadership e di voti), siamo più affini a quelle solide e brillanti imprese che hanno fatto per decenni la fortuna del nord e dei suoi distretti industriali, e quindi dell’Italia; ma che oggi devono adeguarsi a cambiamenti improvvisi e rapidissimi (come è avvenuto nella politica agostana) per rimanere competitive in un mercato che cambia prodotto con altrettanta velocità.

 

Anche in politica oggi è così: il consenso è volatile, si guadagna e si perde alla velocità della luce. La sola cosa da evitare è rintanarci nell’illusione di una autosufficienza autarchica, in un nazionalismo senza respiro che poi non riesce a valicare il Brennero e il Frejus, allontanandoci fatalmente dall’Europa e dai mercati, in un azzardo sovranista che può apparire brillante, ma che potrebbe rivelarsi un’avventura che pagheremo cara.

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