C’era anche qualche nazionalista ungherese alla manifestazione della Lega e del centrodestra sabato scorso a Roma (foto LaPresse)

Il giusto report sul sovranismo

Barbara Pontecorvo

Non solo Russia. La pericolosità dei nazionalisti passa dall’incapacità di disinnescare le ventole dell’odio xenofobo e razziale. E’ arrivato il momento di non banalizzare più

Lasciate pure che vi chiamino razzisti, lasciate che vi chiamino xenofobi, lasciate che vi chiamino nativisti. Voi fatene una medaglia d’onore”. Così il 10 marzo 2018 Steve Bannon, già stratega delle presidenziali di Donald Trump, raccomandava al pubblico della convention del Front National di Marine Le Pen di sentirsi parte di un movimento mondiale, nella cui direzione tira – a suo dire – il vento della storia. Il suo fiero discorso già svelava la trama di una rete globale, alla quale anche i più attenti attori politici non sembrano aver mai prestato la dovuta attenzione e che lunedì sera Report, sui Rai 3, ha cominciato a illuminare anche per il pubblico più vasto. La rete del sovranismo si svela nella identità di programmi, di parole, simboli e proclami. “In nome delle persone, questo sarà il mio slogan. I francesi sono stati dimenticati dai diversi politici in carica, bisogna ritrovare la nostra sovranità”, è stato a lungo il refrain di Marine Le Pen. “Noi vediamo il futuro della Slovacchia come quello di uno stato assolutamente sovrano, all’interno di un’Europa di stati-nazione”, è il refrain del Partito nazionale slovacco. “La democrazia moderna si evolve in simbiosi con lo stato-nazione. Democrazia significa governo delle persone”, sono le parole d’ordine dei Democratici svedesi (democratici solo di nome). “La svendita della nostra sovranità e autodeterminazione da parte delle élite politiche deve finire”, sostengono i militanti del Partito svizzero dell’ultradestra populista e anti europeista. Lo stesso partito svizzero ha fondato la propria campagna elettorale sul tema dell’immigrazione, con argomentazioni e slogan del tipo “Prima i nostri”, proprio come “Prima gli italiani” della Lega di Matteo Salvini, ma anche come “il diritto di tutte le nazioni di porre al primo posto i propri interessi” di Viktor Orbán e come “America first” di Donald Trump. Come si evince dagli slogan e dai programmi, nessuno di questi movimenti o partiti ha alle sue spalle l’elaborazione di un pensiero politico originale, ma si fa promotore di un tratto della catena di messaggi fondati su un’identità di linguaggio, di schema ripetitivo che attraversano l’Europa: la Germania, l’Austria, la Danimarca, l’Ungheria, la Grecia, la Polonia, la Francia, l’Olanda, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Svezia, la Svizzera ed infine l’Italia. Con la differenza, tra tutti, che l’Italia è l’unico stato in cui la rete del sovranismo si è fatta per la prima volta esperimento di governo. Non è un caso che nello stesso periodo dell’esperimento politico italiano, Steve Bannon, che ha decisamente contribuito alla formazione della rete globale del sovranismo (la società Cambridge Analytica ha potuto sfruttare, sotto la sua supervisione, i dati personali di oltre 50 milioni di utenti di Facebook al fine di targetizzare e ottimizzare al massimo la portata della propaganda politica di diverse campagne elettorali, tra cui le presidenziali americane e la campagna inglese per la Brexit) ha provato, non con troppa fortuna, a spostare la sua roccaforte dagli Stati Uniti all’Italia. L’Italia diventa, con il tentativo di governo Lega-Movimento 5 stelle, il laboratorio politico del movimento internazionale Sovranista e Populista (PopSov, come lo definisce il rapporto sul sovranismo dell’Hague Centre for Strategic Studies nel “Rapporto sull’ascesa del sovranismo populista”), in cui per la prima volta in Europa i movimenti della rete sono al governo e non all’opposizione. La componente populista è dalla parte del popolo, definito come il nucleo etnico-culturale e nativo di un paese, da difendere e proteggere dalle “élite” nazionali ed internazionali e da altri estranei come gli stranieri e più precisamente dagli immigrati. La componente sovranista invoca il ritorno a un ordine internazionale in cui lo stato-nazione, guidato dagli interessi di quella popolazione nativa, mantiene o riafferma il controllo sovrano sulle sue leggi, sulle istituzioni e ristabilisce i termini di tutte le sue interazioni internazionali. Tutti i rapporti internazionali e le regole del mercato globale, come conseguenza, devono essere riviste, in quanto restrizioni imposte allo stato-nazione. Ed è così che i temi del copyright sovranista e populista vengono incessantemente ripresi, sempre in forma ripetitiva, identica a sé stessa. Questi temi fondano la propaganda su timori e paure diffuse, quali gli effetti della globalizzazione, la povertà, la perdita del lavoro, le diseguaglianze economiche, la paura delle migrazioni, la sfiducia nel sistema giudiziario, l’insicurezza delle città, la miopia della politica tradizionale, la corruzione inarrestabile, il timore della perdita dell’identità nazionale e l’eccesso di regole e lacci degli organismi internazionali. A questi timori fanno da contraltare le risposte decise della propaganda sovranista e populista, che promette di rimettere al centro l’uomo medio, colpito per primo dalle crisi recessive e dalle economie in stallo di alcuni paesi, fatalmente attratto dal leader forte (Orbán, Salvini, Putin), che promette misure energiche e protettive. Un’attrazione tanto fatale da trasformarsi in rivolta contro l’establishment. Il messaggio sovranista e populista non rimette solo al centro l’uomo medio, ma risveglia anche, con l’uso di simboli (materiali e del linguaggio), con riferimenti al passato, tutti quei movimenti di richiamo al fascismo, al nazismo e al suprematismo, che si ritrovano in una simile base ideologica e che ricevono un insperato beneficio di rappresentanza e di legittimazione. Tutti questi movimenti di estrema destra – e non esiste svolta moderata che non passi dall’allontanamento di questi movimenti dalla propria orbita – hanno capito che occorre utilizzare nuovi veicoli politici, liberi dai retaggi del ventennio e che possano essere, per ragioni elettorali e di connessioni internazionali, contaminati. Accade, dunque, che i militanti delle destre europee, da segreti complottatori, sentono di essere i destinatari di un messaggio volto a restituire potere al popolo sovrano all’interno della nazione (dello stato-nazione), divenendo loro stessi i paladini della contestazione del mondo globalizzato. Ricevono una legittimazione politica progressiva, che finalmente permette loro di promuovere messaggi, prima ritenuti inaccettabili, ed oggi tollerabili all’ascolto. Assistiamo a immagini di piazze e di raduni che pensavamo relegate al passato o nelle marginalità sociali delle periferie, osserviamo il ritorno di simboli, di insegne e di saluti nelle piazze europee, che appartenevano alla storia ed erano sepolte nel secolo scorso. Questo ritorno di simboli e di effigi si accompagna alla straordinaria crescita di organizzazioni nazionali che hanno una base comune: la rete internazionale. Allora accade che uno dei killer del massacro in diretta Facebook di Christchurch avesse scritto il suo nome su un caricatore del mitra usato per la mattanza in due moschee in Nuova Zelanda il nome dell’attentatore italiano che sta scontando 12 anni per strage aggravata dall’odio razziale per aver ferito a colpi di pistola in un raid razzista nel centro di Macerata sei immigrati divenuti bersaglio per strada e nei negozi. Come a rimarcare l’identità di ideologia e di intenti, disintermediata dal web e da internet. Perché è proprio grazie alla supremazia del web nelle campagne elettorali, che prevale in maniera decisiva sui contenuti, che si determina l’ascesa di movimenti sovranisti e populisti. A questa ascesa, corredata di messaggi forti e spregiudicati dei rappresentanti e leader dei movimenti PopSov, fa da specchio l’impennata straordinaria di crimini d’odio, che hanno avuto un’impressionante ascesa negli ultimi dieci anni, passando per la banalizzazione e la trivializzazione della storia, con il ritorno violento di quello che viene considerato il termometro del benessere delle società: l’antisemitismo.

 

Fino a che punto è lecito prescindere dalle regole e dai legami internazionali in nome della volontà popolare?

Siamo costretti ad assistere a un terribile episodio di antisemitismo avvenuto il venerdì di Pasqua di quest’anno, nel piccolo villaggio polacco di Pruchnik, a sud di Lublino, in Polonia. Gli abitanti del villaggio hanno impiccato su un albero un grande pupazzo con i caratteri distintivi degli ebrei ortodossi e che, nelle loro intenzioni, doveva rappresentare l’ebreo complottista e traditore, il Giuda Iscariota, condannandolo con la finzione di un processo pubblico e finendolo bruciato. Nelle immagini raccapriccianti si vedono diversi bambini giocare attorno al pupazzo, prima volti ad infliggergli bastonate e poi dandolo alle fiamme. Odio, richiami ai terribili simboli del passato, con l’accusa dell’antisemitismo più ancestrale, che rivolge agli ebrei l’onta di impastare il pane azzimo della Pasqua ebraica con il sangue dei bambini e il ritorno dell’immagine delle persecuzioni nazifasciste, ove al posto del pupazzo appare ancora l’immagine dell’ebreo ancora vivo.

 

I crimini d’odio nei confronti degli ebrei, con pregiudizi e idee radicate e profonde, in costante diminuzione negli ultimi quarant’anni, hanno iniziato a crescere in maniera incontrollata, raggiungendo dei veri picchi esponenziali negli ultimi cinque anni grazie alla propaganda via web (nell’ultimo anno sono stati rilevati oltre 90.000 tra post e commenti, il 73,8 per cento dei quali su Facebook e il 26,2 su Twitter).

 

La propaganda è alimentata da algoritmi e si nutre, in particolare, di quell’effetto chiamato “Camera dell’eco” (“Echo Chamber”), in cui l’utente ha disposizione e visualizza notizie con una natura confermativa delle proprie posizioni, che lo inducono a rafforzare le proprie convinzioni. Basta il richiamo a un solo ebreo (George Soros o la Famiglia Rotschild) per far riemergere le teorie complottiste e soprattutto per chiamare gli antisemiti a raccolta.

 

Alla trama della rete globale anche i più attenti attori politici non sembrano aver mai prestato la dovuta attenzione

I leader politici non li chiamano “ebrei”, perché ne basta uno. Chiaramente l’antisemitismo non è l’unica manifestazione di odio xenofobo e razziale, ma è il fenomeno che meglio si presta ad una rilevazione storica, con tutto il suo bagaglio di tragedie del passato, che arriva alla radice del male. Le società, con il costante adattamento alla regressione morale e alla rinuncia ai valori, ha tollerato che si accettasse la discriminazione: prima ideologica, poi morale ed infine politica, fornendo crescente consenso ai movimenti che la alimentano. Al meglio ha sottovalutato, banalizzato o è rimasta insensibile di fronte a tali fenomeni.

 

La società civile è nel suo insieme indifferente, tollera che si inciti allo stupro per una donna alla quale viene assegnato un alloggio popolare, che si sorrida all’ascolto del coro “laziale ebreo” o “romanista ebreo” allo stadio la domenica e tende a minimizzare e a relegare a fenomeno isolato ogni fatto che diversamente striderebbe alla coscienza collettiva. Schiacciata nelle sue paure indotte, non risponde e non reagisce. La politica si nutre di ambiguità e si macchia di troppo poca chiarezza nel contrastare questi fenomeni, che vengono spesso rappresentati come una normale manifestazione del pensiero. Permette che si dibatta sull’abrogazione delle leggi che sanzionano la ricostituzione del partito fascista con l’esposizione dei suoi simboli. Proprio nel momento in cui le organizzazioni neofasciste, neonaziste e suprematiste ritrovano le parole d’ordine e tornano a proliferare. Sono movimenti forti e ben organizzati, con una rete internazionale dichiarata e disvelata: “Agiamo nel contesto di un movimento globale di difesa della razza bianca” dice l’attentatore di Christchurch. La malattia sta camminando e trova un corpo sociale non sano, poiché è all’interno di quel corpo stesso. I sintomi della malattia, affidati alla cura della magistratura, non trovano risposta. Il saluto romano, l’intonazione della “chiamata del presente” e l’uso della croce celtica non sono offensivi, hanno detto i giudici e superano la censura della Legge Scelba e della Legge Mancino (le uniche leggi a porre un argine a questi fenomeni, ma anche le più disapplicate in Italia) quando hanno uno scopo “commemorativo”. Come se commemorare l’odio fosse accettabile.

 

La legittimazione politica permette alle destre europee di promuovere messaggi, prima ritenuti inaccettabili, e oggi tollerabili

Sfilano allora indisturbati i gruppi nostalgici, sancendo la caduta pregiudiziale sul fascismo, la fine della vergogna che avevano nel dichiararsi fascisti e festeggiando la caduta del tabù. I gruppi sono stati sdoganati, legittimati ed hanno la sensazione (che non è detto sia vera) di esser coperti dall’alto, di esser più vicini al “Palazzo”. Anche se non sono arrivati al Palazzo, comunque si mettono alla testa o cannibalizzano i comitati di quartiere, distribuiscono servizi sul territorio (che danno la sensazione che si sostituiscano allo stato), hanno ritrovato linfa vitale con un clima sociale e politico fertile. E i loro messaggi si sedimentano.

 

Ma come provare a ricongiungere la volontà popolare con un progetto politico che dia risposta a questi fenomeni? Una delle principali questioni democratiche aperte oggi dal sovranismo, non solo in Italia, è soprattutto questa: fino a che punto è lecito prescindere dalle regole e dai legami internazionali in nome della volontà popolare?

 

Servono risposte e messaggi chiari, occorre rafforzare la cultura e con essa la memoria, trovare una sintesi culturale, un terreno ideologico comune che possa unire l’arco politico più ampio possibile e occorre arginare il fenomeno non solo in forma contenitiva di richiamo alla Guerra fredda, ma costruendo un nuovo progetto politico di respiro internazionale, partendo soprattutto dall’Europa. Per opporsi a queste prospettive, si dovrà costruire un nuovo internazionalismo, volto a dar vita a un movimento che ristabilisca i vincoli giuridici internazionali che furono istituiti dopo la Seconda guerra mondiale allo scopo di evitare nuovi conflitti, con alleanze chiare che fissino dei punti fermi e non diano luogo al sospetto di torbide influenze. A oggi la politica ha reagito blandamente e tardivamente. Ogni sforzo di elaborare una risposta alle istanze sovraniste e populiste è stato frustrato da approcci non storici, ma schematici e semplicistici, al servizio di polemiche contingenti. Con la più grave pecca: aver chiamato i rappresentanti del movimento sovranista e populista “fascisti”, “razzisti” e “xenofobi”, non comprendendo che era ciò che volevano e che non andava fatto.

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