Un gruppo di iscritti a Generation Identity in Scozia (foto Wikimedia Commons)

Il rebranding dell'estrema destra europea

Micol Flammini

Antisemitismo e xenofobia fashion del gruppo Generation Identity

Roma. Dopo aver creato un profilo finto su Facebook, il giornalista britannico Ben van der Merwe ha iniziato a seguire profili legati all’ultradestra, a interagire con chi postava commenti sul massacro di Christchurch, in Nuova Zelanda, in cui cinquanta persone a marzo sono state uccise da Brenton Tarrant, il suprematista che prima di compiere la strage aveva pubblicato un manifesto in cui illustrava il suo credo xenofobo. Il giornalista è subito diventato un obiettivo di reclutamento e, nel giro di pochi giorni, è stato contattato da un membro di Generation Identity che gli ha proposto un colloquio via Skype. Così Van der Merwe si è infiltrato ed è entrato nel mondo del più grande gruppo che federa i movimenti europei razzisti e antisemiti. Generation Identity si presenta come un’associazione di giovani, niente teste rasate, niente mimetica, niente stivali, preoccupati per la conservazione della cultura europea.

 

Dicono di essere un progetto metapolitico, distante dalle idee e dal modo di agire della “vecchia destra”. Il giornalista è riuscito ad arrivare all’interno della costola britannica del gruppo, ha partecipato agli incontri, ha sentito ripetere “non siamo razzisti, non siamo complottisti, non siamo violenti”, ma è bastato poco per capire e avere la certezza che Generation Identity è proprio questo: un movimento razzista e antisemita, che diffonde teorie sulla “grande sostituzione”. Su Twitter Ben van der Merwe racconta di aver conosciuto, mentre si fingeva un militante, un ex membro del gruppo terroristico neonazista Nation Action, di aver assistito a incontri in cui veniva spiegato come fabbricare armi tra le mura di casa. “Un rebranding delle vecchie cospirazioni”, scrive il giornalista, dopo aver trascorso cinque mesi sotto copertura tra i massimi esponenti del movimento imparentato a tutte le stragi che da Christchurch a El Paso, da Pittsburgh a Halle, sono partite da un movente antisemita o xenofobo.

 

Di Generation Identity fanno parte soprattutto ragazzi, esteticamente lontani – come aveva notato anche la Bbc suscitando lo sdegno di molti commentatori – dallo stereotipo del suprematista. L’emittente britannica in un servizio su Martin Sellner, leader della sezione austriaca di Generation Identity, coinvolto anche lui nelle indagini sulla strage di Christchurch, aveva indugiato nel descrivere il taglio di capelli ordinato, i pantaloni attillati, le scarpe da ginnastica, un ritratto che secondo alcuni giornali aveva aiutato a mostrare o enfatizzare il lato glamour e accattivante di un movimento razzista. Ma lo stile è parte della nascita del gruppo, che ha sedi in tutta Europa e riceve finanziamenti da simpatizzanti americani, oltre ad avere forti legami con i maggiori partiti di estrema destra. In Austria, Heinz-Christian Strache, all’epoca vicecancelliere e leader della Fpö, era stato ritratto in una foto mentre cenava con diversi esponenti dei gruppi identitari e, affinché quella foto non circolasse troppo, Strache fece causa. Il linguaggio del movimento è entrato nella politica, basti pensare all’uso, da parte di diversi esponenti di estrema destra dell’espressione “grande sostituzione”, presente in alcuni post su Facebook dello stesso Strache.

 

Quando il 9 ottobre, a Halle, Stephan Balliett cercò di compiere una strage il giorno di Yom Kippur, stava girando un video, aveva attaccato lo smartphone all’elmetto da guerra che aveva in testa, in cui chiedeva scusa a tutti coloro che lo guardavano perché si era reso conto che non sarebbe riuscito a uccidere i fedeli dentro alla sinagoga, “I can’t kill shit”, aveva detto. Il suo attacco era ispirato al massacro di Christchurch in cui Tarrant, a sua volta, si era ispirato alle teorie diffuse da Martin Sellner, quello che la giornalista americana Anne Applebaum, in un articolo sul Washington Post, ha definito “un curioso fenomeno della politica europea: the far-right middleman”. La maggior parte dei contatti tra i membri del gruppo avviene su internet, su siti ben disegnati, anche questo è “rebranding”. Poi ci sono gli eventi, che servono per contarsi, ma è su internet che diffondono le loro teorie, volte a creare un senso di emergenza, una chiamata per fermare la “grande sostituzione”, termine mutuato dal libro dell’ideologo francese di estrema destra, Renaud Camus. E’ questo il sostrato che tiene insieme le varie costole nazionali e nazionaliste di Generation Identity, che sono in Germania, in Francia, in Gran Bretagna, in Austria. Lo scopo è federare i movimenti identitari che hanno causato le stragi più recenti.

 

Come nota sempre la Applebaum l’esistenza su internet di questi gruppi e delle loro teorie ci pone di fronte a un dilemma: quando il dibattito politico può condurre alla violenza? Quando e come fermarlo? Ieri Dresda, la città del partito di estrema destra Pegida, ha proclamato “l’emergenza nazismo” per “atteggiamenti e atti antidemocratici, antipluralisti, contrari all’umanità e di estrema destra”, e questa decisione ha diviso la politica. La Cdu di Angela Merkel ha votato contro la risoluzione definendola una formulazione lessicalmente sbagliata – c’è un problema collegato alla violenza dell’estrema destra, ha detto il partito, ma non una “emergenza nazismo” – e senza risvolti pratici, ha un valore simbolico in quanto proposta a una settimana dai festeggiamenti per la caduta del Muro di Berlino. L’esistenza di questi movimenti sta mettendo le nazioni e le loro istituzioni di fronte a delle domande, a delle decisioni da prendere che non sono soltanto legali, ma anche morali, politiche, digitali e sì, anche lessicali e spesso tremolanti di fronte a giusti, ma rischiosi, distinguo.

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