foto LaPresse

Non ci fu alcun italian job

Luciano Capone

Com’è partito il Russiagate dall’Italia, spiegato senza complottismi aggiunti

Ma davvero il Russiagate non è stata l’inchiesta sulle interferenze dei russi nella campagna elettorale americana, bensì un complotto contro Donald Trump? E sul serio George Papadopoulos, che per Trump faceva il “coffee boy” (un ragazzo che porta il caffé), era diventato il “deep state target” (l’obiettivo del deep state per colpire Trump)? Ed è mai possibile che Joseph Mifsud, il professore scomparso della Link Campus, non sia un uomo vicino ai russi ma un agente dei servizi occidentali impegnato in un’operazione contro Trump? La teoria cospirazionista dell’inside job (o dell’italian job) sposata dal mondo trumpiano e su cui sta indagando in Italia il procuratore generale William Barr, con l’aiuto di Giuseppe Conte e dei servizi italiani, non solo è molto improbabile dal punto di vista pratico e logico – come spiega Daniele Raineri – ma non è supportata da riscontri.

  

Ciò che invece sappiamo con ragionevole certezza sul Russiagate, e su ciò che è accaduto in Italia, è contenuto nel rapporto del procuratore speciale Robert Mueller, che è il frutto delle interrogazioni e dell’accesso alla corrispondenza dei protagonisti.

 

Nel marzo del 2016, George Papadopoulos è un giovane analista con poca esperienza, che ha finito di lavorare per la campagna elettorale di Ben Carson nelle primarie repubblicane e ha da poco trovato lavoro nel London centre of international law and practice pimited (Lcilp). Il 6 marzo, dopo aver proposto la sua candidatura, entra a far parte del team di Donald Trump come consigliere per la politica estera. La settimana successiva, il 12 marzo, fa un viaggio a Roma come membro della delegazione del Lcilp per un convegno alla Link Campus University, dove conosce il professore maltese Joseph Mifsud, che ha solidi e storici legami con l’università di Vincenzo Scotti. La sera stessa i due vanno a cena in un ristorante vicino Fontana di Trevi e Mifsud dice a Papadopoulos che ha la possibilità di metterlo in contatto con esponenti del governo russo, in modo da organizzare un in contro tra Trump e Putin. Le connessioni con il Cremlino fanno crescere l’importanza di Papadopoulos nel team elettorale di Trump, vista la linea amichevole nei confronti di Mosca e di Putin del candidato repubblicano. La settimana successiva Trump nomina pubblicamente Papadopoulos come membro del gruppo di consiglieri sulla politica estera e sulla sicurezza nazionale guidato dal senatore Jeff Sessions, definendolo un “excellent guy”.

  

Mifsud e Papadopoulos si tengono in contatto e il 24 marzo si incontrano a Londra, dove il professore maltese arriva accompagnato da una ragazza, Olga Polonskaya, presentata come una nipote di Putin ma che invece è una sua studentessa alla Link Campus. Nella discussione si parla della possibilità di presentargli l’ambasciatore russo a Londra, che Mifsud in passato ha realmente incontrato, e di organizzare un incontro tra il candidato Trump e il presidente Putin. In America si complimentano con il giovane consigliere per il suo lavoro e, dopo l’incontro a Washington del 31 marzo dell’advisory team sulla politica estera con Donald Trump in cui parla dei suoi contatti con i russi a Londra e della possibilità di organizzare un incontro con il capo del Cremlino, Papadopoulos si sente incoraggiato ad andare avanti e continua a scambiarsi mail con i suoi nuovi amici filorussi. Il 12 aprile Mifsud e Papadopoulos si incontrano di nuovo a Londra, prima della partenza del professore maltese in Russia, per partecipare al Valdai meeting, la cosiddetta Davos di Putin, dove è invitato come relatore e per degli incontri alla Duma, il Parlamento, con degli esponenti del governo russo. Pochi giorni dopo, Mifsud presenta a Papadopoulos via mail Ivan Timofeev, il direttore del Russian International Affairs Council (Riac), un think tank fondato dal Cremlino, presentandolo come un uomo molto vicino al ministero degli Esteri russo. Papadopoulos e Timofeev hanno diversi scambi, sia attraverso Skype sia via mail, e in una di queste conversazioni il russo dice di aver parlato con il presidente del Riac Igor Ivanov, l’ex ministro degli Esteri russo, che gli ha dato alcuni consigli su come organizzare una visita a Mosca.

 

Ma la giornata più importante per Papadopoulos e Mifsud, quella che cambierà per sempre la loro vita, è il 26 aprile del 2016. I due si incontrano nel solito hotel per colazione e Mifsud, di ritorno da Mosca, dice a Papadopoulos di aver avuto incontri con esponenti ad alto livello del governo russo e di aver appreso che i russi hanno ottenuto “migliaia di mail” imbarazzanti (“dirt”) della candidata democratica Hillary Clinton.

 

Pochi giorni dopo, il 6 maggio 2016, su invito di un suo amico per un aperitivo, Papadopoulos incontra in un wine bar l’ambasciatore australiano a Londra Alexandre Downer a cui, dopo qualche drink, riferisce che i russi potrebbero aiutare la campagna elettorale di Trump rilasciando informazioni che possono danneggiare la Clinton. Quando a fine luglio WikiLeaks pubblica le mail della Clinton e dei democratici hackerate dai russi, Downer si rende conto della gravità delle affermazioni che due mesi prima gli aveva riferito Papadopoulos e le comunica all’Fbi che, proprio basandosi su questa notizia, apre l’inchiesta sulla potenziale collusione tra la Russia e Donald Trump.

 

L’indagine sul Russiagate, almeno per quanto riguarda questo filone, si conclude con la condanna di George Papadopoulos per aver ripetutamente mentito all’Fbi durante l’interrogatorio del gennaio 2017 sui suoi rapporti con i russi, impedendo all’Fbi di indagare sulle interferenze russe e di affrontare efficacemente Mifsud quando, durante l’interrogatorio successivo, ha fornito risposte inaccurate.

 

Da quando la vicenda è diventata di dominio pubblico, Papadopoulos ha scontato la pena ed è diventato una star del mondo trumpiano dicendo di essere stato il “target” di un complotto del “deep state” per colpire Trump, mentre Mifsud è sparito nel nulla ma si è nascosto per diversi mesi a Roma in un appartamento pagato dalla Link Campus (che ora afferma di conoscerlo a malapena).

 

Questi sono i fatti, accertati dagli investigatori e mai smentiti da nessuno. Anzi no, Papadopoulos afferma di non aver detto delle mail della Clinton all’ambasciatore australiano: Downer, ex leader del centrodestra australiano e ministro degli Esteri dei governi conservatori, sarebbe quindi una pedina del complotto del deep state per favorire la Clinton. Me è lo stesso Papadopoulos che ammette di aver raccontato delle mail della Clinton in mano ai russi anche all’allora ministro degli Esteri greco, il comunista filorusso Níkos Kotziás, durante un suo viaggio ad Atene del 26 maggio del 2016 (20 giorni dopo aver riferito la stessa cosa a Downer). Papadopoulos voleva fare colpo su Kotziás, visto che l’indomani il ministro degli Esteri avrebbe incontrato Vladimir Putin in visita in Grecia.

 

Non c’era certo bisogno di un complotto del deep state, né di coinvolgere l’ambasciatore australiano o i servizi italiani, per far finire nei guai uno sprovveduto chiacchierone come Papadopoulos.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali