Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Oltre Mifsud c'è di più

Salvatore Merlo

Conte consegna i nostri 007 a Trump. Ecco svelata la montagna di anomalie nel rapporto tra il premier e i servizi

Roma. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte potrebbe trovarsi ben presto in un grosso guaio. Come spiega una fonte accreditatissima, che da anni si muove nel mondo dei servizi segreti: “Il presidente del Consiglio ha messo i vertici dei nostri servizi a disposizione del ministro della Giustizia americana William Barr, in un contesto anomalo che trascina la nostra intelligence nel conflitto politico e istituzionale americano tra il presidente Trump e gli oppositori che, imbracciando il famoso rapporto Mueller, lo accusano di rapporti con la Russia”. La vicenda è delicata e insieme complicata. E descrive un lungo collier di anomalie che meritano di essere illuminate e che probabilmente necessitano anche di alcune risposte e spiegazioni da parte dello stesso presidente del Consiglio.

   

 

La prima anomalia, la minore per così dire, insomma la punta dell’iceberg, riguarda in primo luogo l’equilibrio (o meglio sarebbe dire lo squilibrio) di poteri che in questi mesi ha irritualmente concentrato nella mani del solo presidente del Consiglio tutti i meccanismi di controllo e gestione funzionale dell’intelligence italiana. Occorre spiegare preliminarmente che i servizi segreti, con la riforma del 2007, fanno capo alla presidenza del Consiglio. Tutti. Prima del 2007 esisteva un meccanismo di bipartizione, ovvero a Palazzo Chigi spettava il coordinamento, ma le due agenzie segrete dipendevano una dal ministero dell’Interno (Sisde), l’altra dal ministero della Difesa (Sismi). La legge 124 del 2007 ha concentrato tutto sulla presidenza del Consiglio, prevedendo tuttavia che il capo del governo possa a sua volta nominare un sottosegretario o un ministro a cui affidare la delega ai servizi. Tanto è delicata la faccenda che la legge specifica come la competenza della delega sia “esclusiva”, ovvero non può sommarsi a nessun’altra delega. Negli ultimi anni Enrico Letta delegò Marco Minniti, così come fece Matteo Renzi. Paolo Gentiloni trattenne invece per sé la delega, come ha fatto poi Giuseppe Conte sia nel governo con Matteo Salvini sia nel governo con il Pd. L’anomalia consiste nel fatto che il presidente del Consiglio accentra su di sé i servizi segreti in un contesto istituzionale in cui persino l’altro dipartimento chiave sul terreno dell’Informazione, il ministero dell’Interno, è retto da un tecnico, il prefetto Luciana Lamorgese (che dunque non ha referenti politici se non ancora una volta il presidente del Consiglio stesso).

 

Non solo. Dal giuramento del governo, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (il Copasir) non è pienamente funzionante in quanto il suo presidente, Lorenzo Guerini, è diventato ministro della Difesa. In pratica, in un governo politico per eccellenza come quello della coalizione rossogialla, in cui tutti i ministri sono politici, gli unici ministeri dove non ci sono autorità politiche sono i servizi e l’Interno. E tutto questo mentre il Copasir è messo nelle condizioni di non esercitare a pieno il suo ruolo di controllo.

 

Il risultato, certamente frutto di casualità, è che ogni cosa risponda, quasi come in un commissariamento di fatto dell’intero comparto di intelligence, al solo capo del governo. Cioè a Giuseppe Conte. E allora è proprio in questo quadro di anomalie per così dire minori, ma significative e preliminari, che si aggiungono, come nella costruzione di una montagna, anomalie ancora più grosse. Anomalie sull’uso che Conte avrebbe fatto del suo enorme potere sui servizi e di come possa averli esposti nel conflitto con il quale Donald Trump si sta giocando la rielezione alla Casa Bianca. 

 

Il 15 agosto, inevitabilmente su richiesta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, i vertici dei servizi segreti italiani si sono incontrati, a Roma, presso l’ambasciata statunitense, con il ministro della giustizia William Barr venuto in incognito in Italia. (Inciso: il 27 agosto, cioè dodici giorni dopo, Donald Trump lancia il famoso esultante tweet di endorsement per Conte: “Si stanno mettendo bene le cose per il presidente del Consiglio italiano, molto rispettato, ‘Giuseppi’ Conte”). Barr era interessato a conoscere dalla nostra intelligence cosa ne sia stato di  Joseph Mifsud, il professore della romana  Link University  di cui a lungo si è occupato sul Foglio Luciano Capone. Secondo George Papadopoulos, già consulente di Trump condannato per aver mentito all’Fbi, Mifsud farebbe parte di un “complotto” per colpire Trump col  Russiagate (secondo la nota inchiesta di Mueller, Mifsud è infatti il “professore” che ha riferito a Papadopoulos che i russi erano in possesso delle email compromettenti di Hillary Clinton).

 

L’anomalia qui è apparentemente ciclopica. Ma non è ancora nemmeno la più grossa. Si tratta infatti di una valanga, come vedremo. Spiega sempre la nostra fonte interna: “Non è normale che ci sia stato questo incontro tra Barr e i nostri servizi. Sarebbe stato molto più democraticamente compatibile se all’incontro fosse stato presente Conte. Esiste un piano politico ed esiste un piano tecnico-operativo. Il procuratore generale Barr ha una forte legittimazione politica, è il ministro di un governo. I direttori dei nostri servizi no. Erano in stato di soggezione visto che presumibilmente Conte li aveva indirizzati a quell’incontro dicendogli di parlare apertamente? Di sicuro non si trattava di un incontro tra pari”. Il fatto che l’incontro sia avvenuto all’ambasciata americana, cioè in territorio americano, accentua ancora di più la disparità e il disequilibrio di legittimità. Vale la pena ricordarlo: si parla di cose delicatissime, del cuore del sistema di sicurezza nazionale.

 

E qui si arriva al punto più controverso della faccenda. L’anomalia numero uno, per così dire. Perché in quell’incontro, come è stato scritto anche dal NYT, il ministro americano chiede e ottiene dai capi dei nostri servizi segreti una collaborazione tesa a mettere in discussione un rapporto, quello dall’ex procuratore speciale Robert Mueller, che si basa anche su indagini di un’autorità federale americana: l’Fbi. E insomma Barr non chiede ai nostri servizi, seppur in modo decisamente irrituale, aiuto contro una minaccia comune esterna (per esempio il terrorismo jihadista). Di fatto, attraverso Conte, il ministro americano chiede, e a quanto pare ottiene dagli italiani, informazioni che hanno una enorme rilevanza sulla politica interna americana e che – seppur indirettamente – rientrano anche in un conflitto istituzionale tra agenzie federali statunitensi. Una faccenda delicatissima che ricorda la storia di Joe Biden e dell’Ucraina, con la telefonata di Trump al presidente ucraino Zelensky per chiedergli aiuto al fine di delegittimare il suo più probabile sfidante alle prossime elezioni. In cambio Trump sbloccava a Zelensky 400 milioni di dollari in aiuti militari, che casualmente pochi giorni prima aveva deciso di sospendere. Una domanda è: quale potrebbe essere stata l’eventuale contropartita nel caso italiano, se mai c’è stata una vera contropartita? Il tweet a favore di “Giuseppi”?

 

Resta un fatto, ovvero l’anomalia delle anomalie, una faccenda che riguarda soltanto l’Italia, il presidente Conte e l’uso che il premier avrebbe fatto del suo enorme e accentratissimo potere sui servizi. Dice ancora la nostra fonte qualificata: “I nostri servizi segreti sono stati trascinati dentro la dinamica politica americana. Sono stati esposti. Gli americani faranno un uso pubblico delle informazioni eventualmente ricevute perché l’obiettivo è delegittimare pubblicamente il rapporto Muller e ribaltare nella contesa politica l’effetto del Russiagate”. Non una cosa da poco. Se Trump riuscisse infatti a far passare la tesi che il rapporto Mueller è frutto di un pregiudizio investigativo, per lui sarebbe una vittoria forse decisiva. E se per dimostrarlo, nel corso di un’indagine pubblica, magari al Congresso americano, venissero chiamati a testimoniare anche i capi dei servizi segreti italiani le cui dichiarazioni già si trovano nei dossier di Washington (lo ha scritto il Daily Beast) si verificherebbe un cortocircuito inimmaginabile. Inedito. Per Conte questa faccenda potrebbe diventare un guaio molto serio. Dovrà spiegare più di qualcosa.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.