Gennaro Vecchione (foto LaPresse)

È un paese per Vecchione

Valerio Valentini

Come il capo dei servizi segreti è diventato il vero braccio destro del premier Conte

Roma. In fondo, William Barr non ha fatto altro che quello che Giuseppe Conte consiglia a tutti, quando si ritrova impelagato in una questione delicata. “Parlane con Vecchione”, dice infatti, assai spesso, il premier ai suoi interlocutori: e che si tratti di amministratori delegati di grandi aziende o di potenziali partner industriali del nostro paese, il suggerimento è sempre quello. “Parlane con Vecchione”. Ed è così che alla fine il ministro della Giustizia americano proprio quello ha fatto: è venuto a Roma e, per ottenere collaborazione nelle sue indagini sulla scomparsa di Joseph Mifsud e sul Russiagate, ha incontrato, appunto, Gennaro Vecchione, il capo supremo del Dis arrivato a dirigere i nostri reparti d’intelligence su precisa volontà dell’“avvocato del popolo”. Il quale, dopo aver rivendicato per sé la delega ai servizi segreti, nel novembre scorso scartò candidati che alla vigilia parevano ben più accreditati (su tutti, Franco Gabrielli), per imporre un uomo di sua stretta fiducia, a cui lo legava una consuetudine vecchia di anni. La cena per farli conoscere, a quanto pare, la si deve alle rispettive consorti: perché la ex moglie di Vecchione è amica di lunga data di Olivia Paladino, la fidanzata del premier. Che di quello stimato generale della Guardia di Finanza con tre lauree nel curriculum, romano di Roma, col quale s’era più volte ritrovato a confrontarsi – oltreché sul diritto e la formazione dei giovani ufficiali – anche della comune affezione a Padre Pio, si ricordò al momento della scelta. E ne decretò la promozione al piano nobile di Piazza Dante, ignorando perfino i mugugni neppure troppo sotterranei di chi riteneva irrituale, se non addirittura sconveniente, affidare i vertici di Dis e Aise (l’intelligence e il servizio segreto per gli affari esteri) a due generali con la stessa divisa: quella delle Fiamme gialle. E da lì, con ricorrenza crescente, nacque pure il ritornello ormai diffuso perfino al di là dei confini nazionali: “Parlane con Vecchione”. Dal capo del Dis, Conte si fa accompagnare con una frequenza insolita anche in incontri a metà tra il diplomatico e il mondano, nella Roma che conta e non solo, anche quando il tema delle discussioni è solo latamente riconducibile alla sicurezza nazionale. Vecchione diventa, in breve tempo, l’ombrello istituzionale sotto cui il fu professore di Volturara inizia a costruire la sua scalata nel mondo della politica, alimentando un’ansia di affermazione segretamente covata. E Vecchione segue e asseconda le alterne fortune del premier, specie nell’altalenante rapporto con chi poi, di fatto, ne sancirà la piena – per ora – apoteosi: e cioè l’Amministrazione Trump.

 

Le coincidenze, ovviamente, vanno viste con le dovute cautele. E però colpisce che il tweet d’investitura all’amico “Giuseppi”, al termine della buriana del Papeete agostana, il presidente americano lo pubblichi il 27 agosto: e cioè, guarda un po’, proprio a metà tra le due visite romane di Barr. Entrambe culminate con un incontro segreto, favorito dallo stesso Conte, con Vecchione: entrambe finalizzate a ottenere, più che a chiedere, informazioni e collaborazione nella ricerca (o nella protezione) di Mifsud, l’agente maltese al centro del Russiagate. Un modo, insomma, per ribadire che l’investitura a mezzo social network non era certo gratis (né vale, a riscattarla, il solo aiuto nell’indagine). E così Barr ne ha parlato con Vecchione. Che, del resto, sul mistero di Mifsud dovrebbe saperne, forse, non solo in virtù del suo attuale ruolo di capo delle “barbe finte”, ma anche per la comune vicinanza agli ambienti della Link Campus, l’università di Vincenzo Scotti di cui Mifsud era uomo di punta – qui aveva incontrato per la prima volta il consigliere di Trump, George Papadopoulos – e da cui si è visto garantire durante la clandestinità un alloggio nel pieno centro di Roma, a due passi da Villa Borghese. E quando già il Foglio aveva rivelato gli ambigui legami tra l’ateneo di Scotti (fucina di almeno un paio di esponenti di governo grillini) e Mifsud, proprio nell’aula magna della Link Campus, il 15 marzo scorso, Vecchione accettava di tenere una lectio magistralis sulle “Nuove sfide per l’intelligence italiana”: omettendo di dire che, una di queste, era proprio trovare, o proteggere, quel professore maltese apparentemente scomparso nel nulla da quasi due anni. Senza contare che poi, come se ci volessero altri indizi per rafforzare i dubbi e i retropensieri sui legami tra i servizi e la Link, a metà settembre, e cioè alla vigilia del secondo incontro ravvicinato con Barr, interessato a fare chiarezza sul ruolo dell’università romana nella vicenda Mifsud, Palazzo Chigi decretava la promozione a vice di Vecchione di Bruno Valensise, uno che i piani alti del Dis li frequenta da anni e che certo definire “uomo della Link” sarebbe riduttivo, ma che pure alla Link è stato docente. Ora va a occupare il ruolo che è stato, fino a pochi giorni fa, di Enrico Savio, che con Vecchione non è mai andato troppo d’accordo e che ora se ne torna alla corte del suo mentore storico, quel Gianni De Gennaro che lo ha voluto di nuovo al suo fianco, in Leonardo, dopo gli anni trascorsi insieme ai vertici dei servizi segreti. Un avvicendamento che ha rinfocolato le voci secondo cui tra gli apparati d’intelligence storicamente filoatlantici, e Vecchione, non sia mai corso buon sangue: anche in virtù delle posizioni ondivaghe tenute dal capo del Dis, e da Conte stesso, sui rapporti con la Cina, sulla collaborazione con Pechino nel settore dell’aerospazio e sulla prevenzione dalla minaccia asiatica nel campo del 5G, che a Palazzo Chigi hanno sempre voluto ridimensionare (prova ne sia la decisione di ammorbidire il decreto sulla “Golden Power” rafforzata in un disegno di legge dalle maglie assai più larghe, per le imprese cinesi) e forse perfino sottovalutare, a giudicare dall’insofferenza che sul tema ha spesso dimostrato l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg. La virata, poi, è arrivata in extremis: quando Conte ha capito che la fiducia di Washington nei confronti della Lega di Matteo Salvini era terminata, e allora ha deciso di accreditarsi lui come difensore dell’atlantismo. E forse questo basterà all’“avvocato del popolo” per proseguire la sua esperienza da premier, ma forse non varrà a Vecchione la conferma ai vertici del Dis, che potrebbe dover lasciare a breve, magari per andare a seguire il suo amico Giuseppe a Palazzo Chigi con un ruolo da consigliere del premier.