Matteo Salvini durante una conferenza stampa a via Bellerio (foto LaPresse)

La Lega vuole arginare Salvini tornando al consiglio federale

Valerio Valentini

“Se ti circondi di gente come Borghi e Bagnai, vien da tremare al pensiero della possibile squadra di ministri”, dice Borghezio

Roma. Carmelo Lo Monte è stato il più risoluto, a trarre il dado. “Sì, lunedì sera ho comunicato a Roberto Fico la mia intenzione di passare al gruppo Misto”, dice il deputato siciliano della Lega. “E l’ho fatto perché ho capito che Salvini è un nordista di vecchia razza, uno che dal Sud vuole solo i voti, che sulla nostra isola ha raccattato personaggetti inconsistenti elevandoli a presunti leader regionali”. Ed è presto per dire se ne seguiranno altre, di defezioni in casa del Carroccio, ora che la stella del “capitano” che fu s’è oscurata.

 

Ma di certo, il ritorno all’opposizione dell’uomo che sognava di marciare su Palazzo Chigi dalla spiaggia dal Papeete, pone alla Lega un dilemma complesso. Perché la tentazione di tornare a esaltare le virtù del nord – quegli asili nido gratuiti che la virtuosa Lombardia già offre da anni e che Conte solo ora vorrebbe estendere a tutto il paese – e a pretendere l’autonomia differenziata tutta e subito, è forte. Ma è proprio rievocando, in modo più o meno esplicito, il “prima il nord”, che Salvini rischia di vedersi sfarinare tra le mani quel consenso che al Sud si andava sedimentando. “La crescita della Lega nel mezzogiorno era più che altro virtuale, un umore che cominciava a prendere sostanza, ma che proprio lo spauracchio dell’autonomia, su cui i media meridionali si sono concentrati molto, stava mettendo in forte discussione”, osserva il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, di FdI. Che evidentemente se lo spiega così, il brusco ripensamento di Salvini: che dal palco di Pescara, nell’estasi improvvida dell’8 di agosto, urlava il suo “andremo da soli”, e che invece ora predica sulla necessità di “allargare e di includere”, e lunedì s’è perfino rassegnato a chiedere ospitalità a Giorgia Meloni sul palco allestito in Piazza Montecitorio contro “l’inciucio giallorosso”. Nel mezzo, secondo Rampelli, “c’è la consapevolezza che quello di FdI, al Sud, è un consenso più omogeneo e più radicato, e poi c’è anche lo spettro della nuova legge proporzionale”.

 

Già, perché oltre alla volubilità dell’elettorato, ci sono anche le logiche della politica. E così Salvini si ritrova schiacciato nella morsa rousseaugialla anche laddove sperava di vedersi spianare, per la sua fedelissima Lucia Borgonzoni, la via del trionfo. In Emilia-Romagna, infatti, Pd e M5s non hanno perso tempo. “E a novembre”, spiega quella vecchia volpe di Pier Ferdinando Casini, “alle regionali ci sarà un patto di desistenza”. E la voce deve essere arrivata anche a Via Bellerio, a giudicare dalla fermezza con cui Jacopo Morrone, segretario della Lega in Romagna, traccia lo scenario. “I grillini potrebbero senz’altro presentare un candidato fatiscente, così da dirottare tutti i loro voti sul Pd. Ma questo – dice l’ex sottosegretario leghista alla Giustizia – significherebbe contarsi, e sancire la loro irrilevanza in regione. Più probabile, allora, che s’inventino un qualche problema tecnico e non si presentino affatto, facendo un favore a Stefano Bonaccini”. Una indiscrezione che viene accreditata anche da quell’ineffabile personaggio che è Nik il Nero, al secolo Nicola Virzì, camionista e videoblogger bolognese amico storico di Beppe Grillo e da anni nello staff della comunicazione casaleggesca, dunque promosso come fotografo ufficiale a Palazzo Chigi. “Di nostri candidati – dice Virzì – al momento non ce ne sono, e questo è strano. Di certo, per rappresentare il M5s in questa campagna elettorale, non c’è la fila”.

 

E poi c’è l’altro dissidio in cui Salvini è inviluppato. Perché il ritorno all’opposizione segnerà senz’altro un rafforzamento delle istanze più sconclusionate dell’antieuropeismo à la page di Borghi e Bagnai. “E però, così facendo, ci renderemo inaffidabili per tutto quel mondo imprenditoriale e istituzionale con cui pure dovremmo sapere accreditarci”, dice l’ex eurodeputato Mario Borghezio. Che ritorna, mentre cammina per i corridoi del Senato, sulla crisi agostana. “Facendo la cosa giusta, Salvini ha sbagliato. Perché rompere coi grillini si doveva, ma non in quel modo”. E così, mentre il leghista pugliese Mario Marti – pure lui alle prese coi malumori del Carroccio locale – lamenta “una macchinazione orchestrata dai servizi sul Russiagate”, mentre Bagnai spiega agli ex alleati grillini che tutto è dipeso “da un gioco più grande di poteri più alti”, Borghezio dice che l’errore di Salvini è stato proprio nel non sapere presentarsi come un leader affidabile: “Se invochi i pieni poteri e ti circondi di gente come Borghi e Bagnai o Zanni, chiunque non sia un leghista di ferro come me, pur avendo simpatie per Matteo, finisce con lo sperare che non vinci alle elezioni, perché vien da tremare al pensiero della possibile squadra di ministri”. Ed è anche per questo che, tra i vecchi colonnelli del Carroccio, dopo il pasticcio del Papeete va maturando l’idea di ridare l’antico lustro e l’originaria efficacia al consiglio federale. Quello dove un tempo, pur nell’assoluto dispotismo di Bossi, si discuteva davvero: e Maroni, Calderoli e Giorgetti, e per un certo tempo Reguzzoni, fungevano quantomeno da filtro che vagliava le idee e le strategie intelligenti da quelle che non lo erano. “Sì, bisogna ripensare la Lega, ora”, dice Borghezio. “Ma per farlo, Salvini dovrebbe circondarsi di consiglieri, e non di leccaculo”.

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