Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Perché la battaglia delle deleghe tra Mise e Farnesina divide il M5s

Valerio Valentini

Di Maio ostenta la sua leadership ma al ministero dello Sviluppo economico c’è chi non vuole rafforzare troppo gli Esteri guidati dal capo dei grillini

Roma. Con l’aria di quei ragazzi un po’ vanesi, che finiscono ai margini del gruppo nella foto di classe e allora si sbracciano e sgomitano per apparire comunque ben visibili nel ritratto collettivo, ecco che Luigi Di Maio, come sentendosi marginalizzato, ai confini dell’impero capitolino dei Palazzi, ha deciso subito di trasformare la Farnesina nella sede distaccata del governo appena nato, un po’ come il fu Capitano faceva col Viminale. E in parte, il leader del M5s lo fa quasi per ribadire quel che dovrebbe essere ovvio, e che – innanzitutto a lui – evidentemente non appare tale: e cioè che resta comunque lui, capo del partito di maggioranza relativa, l’azionista di maggioranza dell’esecutivo. E così, a metà pomeriggio, improvvisa un vertice nei suoi uffici del ministero degli Esteri, per discutere – niente di meno – delle proposte da portare sui tavoli di Bruxelles nel fine settimana. Quelli, cioè, dove lui non andrà. 

 

E tutto passerebbe inosservato, se non fosse che i sagaci strateghi della comunicazione grillina subito si premurano di far sapere alle agenzie stampa della riunione (con tanto di pretenziosa finalità “fare il punto in vista dell’Ecofin e dell’Eurogruppo di venerdì e sabato”) a cui prende parte, viene fatto sapere, “il gruppo economico del M5s”. Che detto così suona alquanto pomposo, ci s’immagina i vertici del movimento tutti indaffarati in un brainstorming autorevole. Solo che, mentre escono quelle agenzie, i parlamentari delle commissioni Bilancio e Finanze s’aggirano quasi tutti in Transatlantico, a smaltire i postumi della baruffa del giorno prima al Senato: quando, tra votazioni, insulti e crisi di pianto, si sono azzuffati per decidere chi dovesse andare al Mef nei ruoli di sottogoverno (e alla fine, pare, si va verso un ticket che prevede la riconferma di Laura Castelli viceministro e Stefano Buffagni sottosegretario, sempre che le incompatibilità caratteriali dei due non suggeriscano a Di Maio di scongiurare una convivenza che già s’annuncia tribolata). Ma insomma, cos’è questo “gruppo economico”? “Boh”, è la risposta che si ottiene. Si scoprirà solo più tardi che il summit altro non è stato che una riunione del leader del M5s con una manciata di sedicenti tecnici economici di area grillina. Un tentativo, insomma, di far sentire il fiato sul collo di Roberto Gualtieri e Giuseppe Conte, che parteciperanno – loro sì – agli incontri di Bruxelles dei prossimi giorni. Un tentativo neppure ben riuscito, peraltro, a giudicare dall’indifferenza con cui, sia al Nazareno sia a Palazzo Chigi, si reagisce alla notizia.

 

E però, non tutto è finzione. Perché, in fondo, la smania di protagonismo di Di Maio si traduce anche in una effettiva avocazione di poteri, con modifiche di assetti ministeriali dall’impatto non del tutto calcolato. E’ così che è nata l’idea di traferire la competenza del Commercio estero alla Farnesina, privando il Mise di un suo ormai storico braccio armato: e cioè l’Ice, l’Istituto per il commercio estero, che finora è sempre stato in capo a Via Veneto. Una scelta che ovviamente rende felici i tecnici della Farnesina, mentre riscuote non poche perplessità all’interno del ministero guidato oggi da Stefano Patuanelli. Il quale, tuttavia, alla delegazione di parlamentari grillini che mercoledì ha convocato al Mise per un primo coordinamento (provocando i malumori del Pd: “Ma come, usa il ministero per riunioni di partito?”), ha lasciato intendere che sta in verità cercando di trattenere a Via Veneto almeno la regia delle Camere di commercio e degli uffici regionali per il sostegno delle imprese in terra straniera. Insomma, si prospetta uno spacchettamento delle prerogative che potrebbe preludere a impacci e sovrapposizioni: perché al Mise resterebbe il ruolo di pianificazione e sostegno all’internazionalizzazione delle startup, mentre sulla Farnesina ricadrebbe l’onere della promozione e della costruzione di reti diplomatiche per l’export. Sono stati interpellati anche i dirigenti del Mef, che ovviamente dovrebbe disporre il trasferimento di risorse dall’uno all’altro ministero: e il responso è stato, al momento, interlocutorio. Certo, si può farlo senza problemi: basta un decreto. “Ma prima – si è osservato – si valutino rischi e opportunità”. Di Maio, in ogni caso, ha già deciso: e la richiesta che è pervenuta ai tecnici del Mise (la devoluzione di 250 milioni di euro sul bilancio annuale della Farnesina) fa pensare che ciò che il leader grillino voglia per sé sia il fondo per il sostegno del “Made in Italy”, potenziato nel 2017 dall’allora ministro dello Sviluppo Carlo Calenda proprio con l’obiettivo di aiutare le aziende a colonizzare i mercati esteri. Insomma, un modo per permettere a Di Maio – che terrebbe per sé questa delega specifica – di presentarsi come l’ambasciatore dell’export italiano, accompagnando magari gli imprenditori italiani nei loro viaggi, commerciali e diplomatici, nei paesi stranieri. Un modo, insomma, per ritrovare un peso politico spendibile nell’agone propagandistico, pur restando ai confini dell’impero.

Di più su questi argomenti: