Il Bisconte passa e nella Lega pensano a come moderarsi
Il Carroccio almanacca rimpianti (“Salvini è stato scemotto”) e Pd e M5s fanno prove da partito unico
Roma. E’ il giorno della rassegnazione, per la Lega. E della normalizzazione, per il governo del Bisconte che incassa la fiducia definitiva al Senato. Matteo Salvini parla un po’ sotto tono in un’Aula in cui stancamente ciascuno recita il ruolo suo. E allora tra la nuova maggioranza e la nuova opposizione ci si scambiano applausi e pernacchie, mentre tutt’intorno al grande capo, nei corridoi, al ristorante, ecco che i leghisti continuano a tornare sullo stesso argomento, la crisi, come la lingua su un dente malato: “Matteo è stato un po’ scemotto”, dice a un amico Gian Marco Centinaio, l’ex ministro, il candidato a quel posto da commissario europeo da martedì occupato incredibilmente da Paolo Gentiloni. “Adesso dovremmo un po’ moderarci”, annuisce Edoardo Rixi, l’ex sottosegretario ai Trasporti.
E insomma mentre l’Aula del Senato vota una fiducia abbastanza scontata al nuovo (vecchio) governo del Bisconte (169 sì), a Palazzo Madama si scontrano, roteano, vengono messi in scena i sentimenti e i pensieri più disordinati e contrastanti. La Lega si batte il petto, mormora parole di autocritica, “se avessimo votato Ursula von der Leyen forse oggi il presidente del Consiglio sarebbe Salvini”, dice Rixi, mentre c’è chi già addirittura in Parlamento si è tolto dal bavero della giacca la spilletta di Alberto da Giussano. “La spilletta? Ah, no, mi è caduta. Ce l’avevo qui un attimo fa. Giuro! Ma dov’è?”, dice Michele Geraci, che è stato sottosegretario allo Sviluppo economico nella Lega, e che adesso tutti dicono stia invece corteggiando i 5 stelle e Conte per tornare, chissà, al governo, magari da consulente per i rapporti con la Cina.
Ma se la Lega è sospesa tra dubbi, possibili tradimenti, defezioni e rimpianti – “quando sei al governo ti cercano tutti. Adesso invece non ci caga più nessuno”, sintetizza spiritosamente il capogruppo Riccardo Molinari – tutt’intorno alla tragedia padana è uno scodinzolare soddisfatto di Pd e M5s, un continuo odorarsi, tra scambi di carezzine e complimentucci fino a pochi giorni fa semplicemente inimmaginabili. “A novembre ci sono le elezioni in Emilia. E abbiamo già un patto di desistenza con i grillini”, annuncia Pier Ferdinando Casini, sprofondato su una poltroncina del salone Garibaldi. E tutto sembra davvero possibile mentre Pierpaolo Sileri, il grillino presidente della commissione Sanità, si rivolge a quelli del Pd chiamandoli tutti “compagni”, “perché io so’ comunista così”, dice facendo il pugno chiuso con entrambe le braccia a chiunque gli si avvicini. E poi una rivelazione: “Lo diceva pure mio zio, Mario Brega”.
L’euforia è contagiosa. Mario Michele Giarrusso, grande e tombolotto indossa lo stesso abito blu elettrico di quando pochi mesi fa fece il segno delle manette ai senatori del Pd, sfiorando la rissa. Oggi invece si mette sull’attenti davanti a Luigi Zanda, che con aria sorridente gli dà un consiglio paterno: “Prima di parlare, rifletti. E’ sempre meglio”. E quello: “Ti prometto che lo farò”. L’aria è talvolta comica, ma più che altro intima e collaborativa. In un angolo, Barbara Lezzi, alta alta e bionda bionda, è seduta accanto a Giuseppe Provenzano, piccolo piccolo e occhialuto. L’ex ministro grillino per il Sud e l’attuale ministro dem per il Sud si scambiano i dossier. Non compagni di partito, piuttosto compagni di destino. Nessuna gelosia, apparentemente. Ma profonda e diffusa soddisfazione. Persino Danilo Toninelli ha messo da parte l’aria funerea che aveva assunto nei giorni scorsi una volta capito che non lo avrebbero riconfermato manco morti al ministero dei Trasporti. Sembrava un trancio di pesce spada frollo. Adesso è ringalluzzito. Qualcuno gli ha detto che farà il capogruppo al Senato. Così è tornato a sorridere e ha pure recuperato colore. “Cerco di riabituarmi alle aule parlamentari”, dice, mentre attraversa scattante un corridoio. E’ in forma, Toninelli. “Magari mettessero una palestra”, dice. Gli si avvicina Ignazio La Russa, lo guarda negli occhi: “Si sono liberati la coscienza scaricandoti. Hanno mollato Toninelli e sono tutti innocenti. Ti esprimo la mia solidarietà”. E lui, visibilmente soddisfatto, non avendo forse nemmeno ben capito: “Ehhh. Grazie!” (sussurra a questo punto un senatore grillino molto vicino a Vincenzo Spadafora: “Se Toninelli fa il capogruppo, finisce che la Lega riesce a far cadere il governo”. Sorride Renato Schifani, che con Roberto Calderoli fece cadere Prodi ai tempi del senatore Troskista Turigliatto: “Potremmo anche riuscirci in effetti. Ma vogliamo Toninelli!”).
La sera cala su Palazzo Madama. E tutto fila liscio. Nessuna sorpresa. Quando capiscono che la fiducia passa, si rasserenano anche quelli che nei 5 stelle avevano minacciato di non votarla. I leghisti si rassegnano all’opposizione, e i rossogialli si abituano alla convivenza. “Ve lo dico io come andrà a finire tutta questa storia”, sorride Clemente Mastella, che ha accompagnato la moglie Sandra in Senato per il voto di fiducia. “Prima della fine della legislatura ci sarà un Conte-ter”, vaticina, “con un’area di centro alleata. Chi recupera il centro vince le elezioni”. Persino Daniela Santanchè, alla buvette, finisce con il dirlo, lei che moderata non lo è stata mai: “Chi si modera prende anche la destra”. E’ come se l’errore di Salvini, l’essersi isolato in Europa e nel mondo, fosse ancora lì. Un monito per tutti. Lo dicono persino i leghisti ormai. “Chi non si modera è perduto”.
L'editoriale del direttore