Giancarlo Giorgetti (foto LaPresse)

Oltre il Copasir. Le contorsioni della Lega per trovare un moderato

Valerio Valentini

Il nome "Giorgetti" sempre candidato a tutto è la spia di un guaio dell'epoca salviniana: la difficoltà nel camuffare l'estremismo

Roma. A chi lo esorta ad accettare, lui risponde con la sua tradizionale laconicità: “Non ci penso nemmeno”. E però nella Lega sono in tanti a sperare che alla fine Giancarlo Giorgetti accetti di andare a presiedere il Copasir (il Comitato per la sicurezza della Repubblica rimasto acefalo dopo la promozione di Lorenzo Guerini al ministero della Difesa), non fosse altro perché la sua candidatura è forse l’unico modo che il Carroccio ha di garantirsi quella carica non proprio secondaria. E del resto, a Via Bellerio funziona sempre così: ogni volta che c’è da indicare un lumbàrd per un ruolo di prestigio, è a Giorgetti che ci si rivolge. Lo sapeva Umberto Bossi, che lo definiva “l’unico che ci permette di sederci a certi tavoli”. E lo sapeva, a modo suo, anche Giorgio Napolitano, che non caso quando si trovò a dover comporre il suo “Comitato dei saggi” per varare delle – ovviamente abortite – riforme istituzionali, nel 2013, chiamò – solo tra i leghisti – proprio Giorgetti. “E’ il migliore”, dicono i suoi estimatori. “E’ l’unico normale lì in mezzo”, corregge chi, sia dentro sia fuori della Lega, non ama molto quel cenacolo di apprendisti statisti di cui si circonda Matteo Salvini. E allora se serve da guidare la commissione Bilancio, tocca a Giorgetti (oppure ti ritrovi coi Claudio Borghi). Se si deve individuare un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ecco Giorgetti. Se bisogna indicare un possibile commissario europeo, evitando di mandare gente al massacro in quel covo di anti-leghisti che è Bruxelles, proviamo Giorgetti. Che poi di solito declina, o quantomeno fa il ritroso. E non a caso c’è chi, tra i suoi amici parlamentari, travisa volutamente la sigla con cui tutti lo chiamano nelle chat interne “GG”, in “Gatto Giuliano”, quello di “Kiss me Licia”, perché “è uno che più si sente fare complimenti, più fa la fusa”.

 

E quindi ci sta che anche stavolta provi a schermirsi. “Io al Copasir? Ma chi mette in giro queste voci?”, s’è limitato a dire a chi lo interrogava nella scorse ore, quando la sua promozione sembrava quasi fatta. “Non se ne parla”, dice. Facendo semmai il nome di Nicola Molteni, già fedelissimo di Salvini al Viminale. Ma pure sa, Giorgetti, che accettare di candidarsi potrebbe essere l’unica soluzione per garantire alla Lega quella carica, dopo le ombre russe del Metropol. E infatti mercoledì non c’era nessun leghista nel capannello di esponenti del Copasir che hanno improvvisato una specie di riunione carbonara del comitato in un corridoio di Montecitorio, poche ore prima che si prospettasse l’imminente convocazione di Giuseppe Conte per riferire del garbuglio misterioso di Joseph Mifsud che ha coinvolto anche i vertici del Dis. C’erano invece, in quel mini-vertice, il meloniano Adolfo Urso, che da vice presidente del Copasir non può non ambire a una promozione, e il capogruppo grillino Antonio Zennaro, che ha riportato un po’ le intenzioni della nuova maggioranza demogrillina. Pd e M5s potrebbero cioè, pare, votare scheda bianca, lasciando che l’incombenza d’individuare il nuovo capo del comitato se la sbrighi il centrodestra. Possibilmente in tempi rapidi, visto il tumultuoso accavallarsi degli eventi.

 

Lo stesso che ha suggerito al Pd di non attendere la ricostituzione della nuova segreteria, per indicare il sostituto di Guerini. E così ieri è stato indicato Enrico Borghi, deputato piemontese della commissione Difesa. Scelta peraltro non priva di interni travagli, visto che il senatore Ernesto Magorno si è già trasferito in Italia viva, e dunque al Pd resta un solo rappresentante nel Copasir e Borghi è esponente di quella stessa corrente di Guerini – Base Riformista – che da molti, al Nazareno, è guardata con un certo sospetto dopo la scissione. “I renziani di risulta”, li chiamano gli uomini vicini a Zingaretti. Ma Borghi, che pure la sua stima per l’ex premier non l’ha mai dissimulata, a chi gli chiedeva del rischio dell’esodo, ieri replicava con fermezza: “Magari proprio la mia fedeltà varrà a dimostrare che questo rischio non esiste”.

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