Giuseppe Conte (foto LaPresse)

L'incredibile leadership di Conte nel governo senza più leader

Salvatore Merlo

Salvini indebolito, Di Maio ridimensionato, Zingaretti ammaccato. Ritratto di un puppet diventato premier

Roma. “Ma questa cosa di Rousseau dobbiamo farla per forza?”. Ci sono momenti in cui anche una sola frase, una domanda gettata lì con apparente noncuranza, rende in una scintilla l’interezza di un nuovo equilibrio, ridisegna forse rapporti politici e personali, chissà, anche geometrie e persino gerarchie. Così, mercoledì pomeriggio, a Palazzo Chigi, nel suo studio di presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il professorino di provincia che venne selezionato “per curriculum” a far da impiegato a Luigi Di Maio e Matteo Salvini, in un attimo bestemmia la liturgia sacrale della Scientology di Casaleggio. L’azzimatissimo pugliese che compiva errori assecondando un’energia neofita dagli esiti non di rado incerti (se non talvolta comici), l’ex “garante” del contratto di governo, ecco che proprio lui, senza timori né tremori mette in dubbio il dogma: “Ma questa cosa di Rousseau dobbiamo farla per forza?”. Si possono a questo punto soltanto immaginare gli occhi sgranati di Max Bugani e Pietro Dettori, cioè i due uomini del sistema Rousseau con i quali Davide Casaleggio ha graziosamente farcito Palazzo Chigi. E bisogna proprio immaginarsi anche la faccia di Luigi Di Maio, il capo politico del M5s che mercoledì ha perso il birignao di signorina viziatella con diritto di precedenza su tutte (pare che il Quirinale non sia convinto di mandarlo nemmeno alla Difesa, è libero il ministero del Lavoro: altrimenti c’è sempre la Pesca).

 

 

Era il vicepresidente di due vicepresidenti, come lo battezzò Vittorio Sgarbi in un memorabile intervento alla Camera, così evidentemente subordinato da spingere un giorno Giancarlo Giorgetti a una battuta contundente di fronte ad alcuni giornalisti (“quando abbiamo selezionato il suo curriculum io l’avevo detto che era vecchio”), ma ecco che a distanza di un anno e mezzo l’uomo più sottovalutato della terra, il “puppet”, la marionetta, come lo apostrofò un po’ volgarmente il liberale olandese Guy Verhofstadt, ha invece seppellito sia Di Maio sia Salvini, i vicepresidenti del vicepresidente. E allora con la sua aria d’inconsapevolezza marziana, la stessa di Bill Murray nel film “l’uomo che sapeva troppo poco”, eroe per caso, ma fortunato – e chissà poi magari nemmeno così sprovveduto – Giuseppe Conte stamattina riceverà da Sergio Matterella il suo secondo mandato da presidente del Consiglio incaricato. Non sarà più sottoposto a nessun vicepresidente, ma avrà soltanto a che fare con leader declinanti (Di Maio) e indeboliti (Zingaretti). Alla fine potrebbe essere il primo, nella storia repubblicana e forse persino del Regno d’Italia, ad aver governato senza soluzione di continuità prima con la destra e poi con la sinistra. Il modello non è certo Beppe Grillo e nemmeno Cavour, ma forse il manzoniano conte (nomen omen) duca don Gasparo Guzman, che faceva “perdere la traccia a chi che sia, e quando accenna a destra si può essere sicuro che batterà a sinistra”. Dunque qualcosa di molto antico, il trasformismo, ma anche un bagliore di futuro. In diciotto mesi il premier per caso ha infatti riempito il vuoto che Salvini e Di Maio si facevano intorno, nella politica e nei rapporti internazionali.

 

 

Quindi adesso Nicola Zingaretti dice che bisogna tentare, perché serve un governo di “chiara discontinuità”.  E tutta questa discontinuità sarà interpretata da lui, sempre da lui, ancora una volta da lui, dall’avvocato del popolo che si trasforma adesso forse nell’avvocato dell’Europa e del sistema – “ma vi siete chiesti com’è che lo spread sta così basso in un momento di instabilità?”, diceva Giorgia Meloni mercoledì sera – capace, come quei professionisti a contratto di cui parlava Craxi, di sostenere oggi il contrario di quello che aveva detto mercoledì. Ma chissà, probabilmente non importa, da sempre infatti l’Italia passa sopra, sotto e attraverso quei controlli di coerenza che secondo una massima cinica sarebbero il rifugio dei pavidi. Ben più rilevante, invece, è l’agilità con cui Conte si è liberato di tutto un bagaglio di parole d’ordine e disordine, per giunta senza pagare un prezzo. Anzi. A poco a poco, questo “presidente per caso” è diventato quasi vero. E lo è diventato tanto più quanto i suoi due vicepremier, sgarzolini twittanti, s’incastravano in una gragnuola di errori, lasciandogli spazi insperati: praterie.

 

Salvini, con il suo fastidio latente per la mediazione politica, andava avanti per scosse energetiche, sparate roboanti e demagogiche. E allora roteava il rosario e il crocifisso come un lazzo o un manganello, mentre Conte parlava con i preti e i cardinali (che, come diceva Andreotti, è persino più utile che parlare con Dio). E mentre Salvini, leader indiscusso del quinto gruppo parlamentare a Bruxelles e trionfatore delle europee, riusciva a isolarsi con le sue stesse mani minacciose, lui invece piazzava un vicepresidente del Parlamento europeo convincendo i bislacchi del M5s, cioè gli sconfitti, a fare quello che Salvini, il vincitore, non riusciva: semplicemente parlare, rassicurare e negoziare. Così, mentre Di Maio e Di Battista si facevano i selfie con gilet gialli, lui prendeva un caffé con Angela Merkel a Davòs, bisbigliandole l’unica cosa confortante (ma comica) che un premier italiano possa confessare a un leader straniero: non prendeteci sul serio.

 

 

Verrebbe da dire che, dopo aver assaggiato il succoso frutto di Palazzo Chigi, Conte non ha dovuto poi faticare troppo per diventare sul serio il presidente del Consiglio. Gli è bastato applicarsi in maniera empirica, cioè avanzando per tentativi e approssimazioni, a quella cosa ovvia, in teoria normale, che però i suoi due ex datori di lavoro non sono stati in grado nemmeno d’immaginare: la politica. Tanto che, in realtà, Conte è soprattutto una fotografia, ovvero l’immagine più rappresentativa dell’incapacità di quelli che sembravano i dioscuri della Terza Repubblica, Salvini e Di Maio, e che invece erano probabilmente anche loro i vincitori di un’incongrua lotteria di cui sul più bello hanno però perso la ricevuta. Eppure se davvero questo professore di provincia con il fazzoletto nel taschino e i gemelli ai polsi sarà “Bisconte”, come pare, sarà cioè premier con la destra e poi anche con la sinistra, ecco che allora entrerà persino nella storia. Chi l’avrebbe mai detto. Tra lui e i manuali di politologia ormai si frappongono soltanto Rousseau e Casaleggio. E infatti, dice lui, con una sicurezza tutta nuova: “Lo dobbiamo fare per forza?”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.