Opinioni su un calendario

Votare o non votare, dilemma politico secco con molte (troppe?) implicazioni. Ma con un obiettivo chiaro: disinnescare il sovranismo-populismo. Un po’ di idee

Incarico a Salvini

E’ la settimana in cui tutti si sbizzariscono con proposte di uscita dalla (o entrata nella) crisi di governo. In questo tripudio di fantasia e coloriti sviluppi in cui, da un giorno all’altro, gli amici diventano nemici, gli alleati diventano avversari, i moderati diventano radicali e gli scemi restano scemi, ho deciso di fare anche io la mia modesta proposta per risolvere la crisi di governo. Sono andato indietro con la memoria, ai miei 15 anni. Era il 1976 e il sistema politico italiano generò una delle sue tante simpatiche innovazioni: il governo della non-sfiducia, o delle astensioni. Andreotti formò un monocolore democristiano. La fiducia la votarono solo i democristiani. Tutti gli altri (incluso, e questa era la novità, l’allora possente Pci) si astennero.

 

Perché non fare lo stesso? Mattarella dia l’incarico a Salvini, chiaro vincitore delle elezioni europee, nuovo grande capataz del popolo italiano, affossatore di barconi, prepensionatore di eroici lavoratori stanchi e padre dei draghi. Merita chiaramente l’incarico. Ma come si fa a votare Salvini, direte voi? Questo è il bello. Come Berlinguer non dovette votare Andreotti per farlo governare, così né Zingaretti né Di Maio né gli scherani di Berlusconi dovranno votare il Truce. Basta astenersi et voilà, il governo Salvini è nato, senza colpo ferire. Cosa dovrà fare il governo Salvini? Una cosa sola: la legge di Bilancio. Ossia, i famosi 18 miliardi di privatizzazioni, i 23 miliardi di maggiori entrate o minori spese per scongiurare l’aumento dell’Iva e tutte quelle altre simpatiche e piacevoli misure che, curiosamente e inspiegabilmente, il governo in cui Salvini ha ricoperto un ruolo centrale ha finora rinviato.

 

Fatta la legge di bilancio e finalmente avuta contezza di quello che Salvini è in grado di fare quando si trova di fronte a problemi concreti, si può tornare a votare. Scongiureremmo perfino il voto in autunno, che non siamo abituati visto che votiamo sempre nel tardo inverno o a inizio primavera. Potremo recarci alle urne tonici e rifocillati, invece che ancora storditi dalle vacanze estive e dalla ripresa delle scuole. Come dite? Perché Salvini dovrebbe accettare un incarico che ne svelerebbe l’inconsistenza e l’incapacità? Questa è la parte più divertente. Perché se lo rifiutasse svelerebbe lo stesso la sua inconsistenza e incapacità. Ci pensi, Presidente Mattarella. E’ una soluzione audace, ma questi sono tempi eccezionali.

 

Sandro Brusco

Governo di decantazione

Non è Matteo Salvini, per quanto sconfinato narcisismo e cinico opportunismo possano indurre a pensarlo, il principale problema d’Italia. La vera minaccia per il paese è la stagnazione, aggravata dall’assenza di prospettive di crescita. Per questo è necessario spersonalizzare al più presto il dibattito pubblico, evitando che si riduca a una diatriba di tifosi pro o contro Salvini, e riportarlo sull’agenda strategica del Paese: produttività, investimenti e crescita. Andare al trauma istituzionale delle elezioni anticipate in un clima di guerra civile a bassa intensità non solo esporrebbe a rischi di ulteriori impennate dello spread e congelerebbe gli investimenti immediati delle imprese, ma farebbe impostare i budget aziendali per il 2020, che si decidono in autunno, su valori da vera e propria recessione attesa. Far decantare il clima, al contrario, dando alla politica il tempo di sintetizzare un portafoglio di opzioni ponderate e realistiche, consentirebbe di non perdere un’altra annata economica, che già si preannuncia tutt’altro che facile per le tensioni internazionali e la frenata industriale tedesca. Inoltre, il prossimo 31 ottobre si vedranno le carte di una Brexit che richiederebbe, per mitigare i possibili danni, un governo in piena funzionalità.

 

L’argomento delle urgenze di finanza pubblica, usato sia da chi vuole elezioni subito sia da chi chiede di evitarle, è fondato ma non va enfatizzato o, peggio, distorto. Le scelte della legge di bilancio 2020 sono infatti già in gran parte vincolate dagli accordi presi con la Commissione europea per evitare – o meglio, rimandare – l’avvio della procedura di infrazione per debito eccessivo. E non prevedono un Def lacrime e sangue: certo richiedono la revisione di scelte scellerate, come Quota 100 e la finta “flat tax”, e l’intervento su riforme pro crescita. Anche un parziale aumento dell’Iva, purché accompagnato da norme sui pagamenti elettronici che riducano gli spazi di evasione come già in parte accaduto con la fatturazione digitale, sarebbe meno drammatico se associato a interventi a favore del lavoro e degli investimenti privati, e compensato dal sostegno alle famiglie più deboli, ripensando il distorsivo “reddito di cittadinanza” grillino per puntare su ripresa ed estensione della precedente forma di reddito di inclusione. Un governo che rispetti gli impegni presi troverebbe certo la comprensione e il supporto della nuova Commissione europea e della presidenza della Bce.

 

Al paese serve un periodo di decantazione dagli eccessi di triviali polemiche e di svilimento dei ruoli istituzionali che hanno caratterizzato questi mesi di governo populista e sovranista. Serve ridare all’Europa e al mondo l’immagine di una nazione che sa usare linguaggi e atteggiamenti istituzionali adeguati e sa onorare gli accordi internazionali intrapresi. E le regole della democrazia parlamentare devono prevalere sia sui fanatismi di chi vuole andare al Götterdämmerung del confronto titanico sia sugli esasperati tatticismi di chi punta a preservare la propria poltrona. Le ricette miracolose del populismo hanno fallito: ora devono emergere proposte realistiche e aggreganti. È il caso di darsi tutti una bella calmata, e tornare a lavorare con in mente l’unità del Paese intorno alle sue istituzioni nazionali ed europee.

 

Carlo Alberto Carnevale Maffè

L’alleanza anti-voto e anti-parlamentare

In Italia c’è sempre un buon motivo per non votare: il primo è che gli italiani, notoriamente, votano sbagliato. E poi lo spread, vuoi mettere lo spread, i mercati s’imbufaliscono, von der Leyen storce il naso, a Greta si drizzano le trecce, e poi Matteo Salvini ormai è indifendibile, rivendica “pieni poteri” aggiungendo “vorrei un governo forte”: la strada verso la Truce Dittatura è spianata. Meglio allora, come sostiene Matteo l’altro, Renzi, tornare al voto nel 2023, ammesso che si debba proprio tornare a ‘sto benedetto voto. In fondo, meno si va alle urne meglio è, gli italiani votano sbagliato, l’ho già detto, adesso sottovalutano il Pericolo Salvini ma vi ricordate con Berlusconi? Hanno sbagliato per vent’anni. Quando impareranno a votare corretto, come si deve, secondo la buona creanza, se ne potrà riparlare. Intanto, Grillo è d’accordo con Prodi e si accorda con Renzi che raccoglie il plauso di Letta jr., e noi a goderci lo spettacolo, quintali di pop corn. L’opposizione che si lascia sfuggire l’unica occasione per tornare alla battaglia politica, quella vera, per costruire un’alternativa che sia una. I 5 Stelle, ridotti in mutande da Salvini, vengono improvvisamente rivitalizzati da Renzi e dai renziani, che dopo aver furoreggiato contro Zingaretti, #senzadime, #senzadite, adesso assecondano la più becera antipolitica. “Il taglio dei parlamentari, senza la riforma del bicameralismo paritario, equivarrebbe allo svuotamento del Parlamento e al superamento della democrazia rappresentativa liberale”, diceva così il Renzi che adesso ha cambiato idea e le poltrone vuole tagliarle, in fretta. Forse, alla fine della storia, Casaleggio jr. ci aveva visto lungo: bruciate le schede elettorali, basta un clic. Una volta ogni tanto.

  

Annalisa Chirico

Tutti insieme per un Milazzismo 4.0

Le istituzioni repubblicane sono una cosa seria e non sarà certo un ministro dell’Interno che si traveste da poliziotto e indossa felpe geolocalizzate con stampata la località nella quale si trova, a distruggere la nostra allegra ma fragile democrazia. Salvini vuole le elezioni subito, è evidente, e il motivo lo ha anche confidato apertis verbis all’avvocato del popolo premier Conte. Ora, siccome fino a prova contraria, i governi nascono e muoiono in Parlamento, ci vuole una grande operazione parlamentare per capire se ci sono nuove alleanze. Perché mai non si potrebbe realizzare un governo votato da tutte le forze politiche tranne Lega e fratelli d’Italia? Carlo Cottarelli, Raffaele Cantone (per far felici i magistrati e riparare all’orrore della sua cacciata dall’Anac), l’avvocato prof. Paola Severino, tutti nomi spendibili per un super governo del Presidente che duri qualche anno, faccia il taglio dei parlamentari (che piace tanto ai 5 stelle), la riforma della legge elettorale, la manovra economica, l’Iva, la nomina del commissario europeo per l’Italia – per inciso Conte sarebbe un perfetto commissario europeo – e così via. Nel frattempo Renzi decide se fare il suo movimento, Zingaretti rafforza sua leadership nel Pd, Berlusca si riprende il partito e riorganizza le truppe liberali del forzismo degli albori.

 

Che ci sarebbe di male nel fare una grande operazione di salvaguardia delle istituzioni repubblicane per fermare il sovranismo putiniano in salsa padana? Del resto la Lega è pur sempre il terzo partito in Parlamento e non può decidere come e quando andare alle urne, infatti così come nacque il governo Conte, oggi potrebbe nascere un super esecutivo firmato da Mattarella. Si dirà: grillini e Pd non possono votare lo stesso governo! E perché mai? Nella Sicilia di Sciascia e Pirandello nasceva nel 1958 un grande esperimento politico dal nome “operazione Milazzo”. Uno dei burattinai dell’operazione fu quel genio del Pci chiamato Emanuele Macaluso. Grazie infatti all’accordo tra il Pci e Msi, il 30 ottobre venne eletto presidente della regione Silvio Milazzo della Dc, corrente anti Fanfani. Il Comitato centrale del Pci, ricordano gli Annales, nella seduta del 2 dicembre dello stesso anno diede un avallo alla scelta fatta in Sicilia col governo Milazzo: Giorgio Amendola, a capo della corrente migliorista, disse “che detta scelta serviva ad impedire il consolidarsi del regime di monopolio politico della Dc di Fanfani”. Il pragmatico Amendola si spinse oltre, per motivare il voto con il Movimento sociale, sostenendo che a proposito dell’alleanza stabilitasi a Palermo anche con monarchici, fascisti e liberali, “una cosa è realizzare un accordo ‘provvisorio’ coi partiti di destra per difendere l’autonomia o per impedire la chiusura di una industria, altra cosa è realizzarlo, come fa abitualmente la Dc, per attuare una politica di conservazione sociale e politica”.

 

Per la buona riuscita dell’operazione Milazzo 4.0 aggiornata ai tempi nostri, servirebbe un po’ di silenzio da parte dei protagonisti. Renzi – ad esempio – non avrebbe dovuto bruciare, come ha fatto con intervista sul Corriere, l’ipotesi di accordo con i grillini: la politica ha bisogno di tempo e il timing è tutto. I 5 stelle, con la leadership di Grillo, non hanno altra possibilità di sopravvivenza se non quella di allungare il brodo della legislatura e provare a sopravvivere vendendo al proprio popolo “il taglio dei parlamentari”. Le variabili al momento sono molte. Berlusconi sembra aver, purtroppo, deciso per il vecchio schema di alleanza con Lega e Fratelli d’Italia portandoci dritti al voto o anche semplicemente facendo un nuovo governo, che nasce in Parlamento, con Salvini premier, Berlusconi e Meloni alla Difesa. La speranza è sempre l’ultima a morire e forse il buon senso trionferà sul senso comune. W il governo del Presidente. Sperem.

 

David Parenzo

Monocolore M5s o nuovo bipolarismo?

Premessa: Non c’è alcuna possibilità sensata di parlare di ribaltone. Il ribaltone lo fece Oscar Luigi Scalfaro, con la complicità della Lega nel 1995, scalzando il premier Berlusconi e spaccando la colazione che aveva stravinto le elezioni. E l’ultimo, dei ribaltoni è stato quello messo in atto da Salvini nella primavera del 2018, quando ha abbandonato la coalizione e il programma del centrodestra per dare vita al primo disastroso esperimento di governo populista in un paese europeo di prima fascia nel secondo dopoguerra. Nel 2018 è stato stipulato un contratto di governo, invero penoso, ma non un’alleanza politica. Quella stava nel programma del centrodestra. Succede ora che il ministro dell’Interno, che ha molto usato il ministero come base di una campagna elettorale permanente, abbia deciso, all’indomani del voto di fiducia sul decreto sicurezza bis, di dire basta ai troppi no dei virgulti di Grillo e di chiedere elezioni alle quali presentarsi da solo o quasi, per ottenere “pieni poteri”. A un primo, superficiale sguardo sembrerebbe ragionevole dire too much. A un secondo, pure. Tuttavia il dilemma, per chi come me pensa che la iattura più grande per l’Italia siano i Cinque stelle, è il seguente: favorire la nascita di un monocolore cinque stelle, addolcito nei suoi più imbarazzanti propositi, guidato dallo stesso Conte, con qualche ministro appena più presentabile di molti degli attuali, con l’appoggio esterno del Pd, senza pasticci (tipo governo delle astensioni 1976/77, però, minchia, c’erano Andreotti e Moro, Berlinguer e Di Giulio…) e tirare fino al 2022, eleggere Draghi presidente della Repubblica e poi votare; oppure registrare che la sortita di Renzi un effetto lo ha ottenuto e ha spinto Salvini ad accucciarsi dentro la coalizione di centrodestra, cosa più comprensibile agli elettori della Lega sopra la linea gotica e anche al partito del pil e, allora, sapendo che Brunetta è meglio di Borghi, ricostruire un principio di comprensibilità e credibilità delle cose che vengono fatte. Se pi si votasse, vincesse la classica maggioranza del centrodestra e poi, nel 2022 venisse eletto presidente della Repubblica silvio Berslusconi,la democrazia sarebbe salva.

 

Sergio Scalpelli

Grillo e Renzi capi partigiani

C’è un paese democratico in cui un premier può decidere di sciogliere il Parlamento e andare al voto? Certo, lo si sa, il Regno Unito. E ce n’è uno in cui può farlo un vicepremier che guida un partito di minoranza? Non risulta. E allora, punto primo, chi grida all’attentato alla democrazia se non si va subito al voto è o un idiota o un imbroglione. Salvini ha fatto un passo falso. Se avesse aspettato un mese il futuro Parlamento sarebbe stato ridotto a un bivacco di manipoli, tutto per lui: eletti definitivamente sganciati dalle loro constituency, sottoposti a un vincolo di mandato informale, a compimento del percorso antiparlamentare iniziato con il cacatellum di Calderoli, musicato in tango argentino dal (fallito) italicum di Renzi – che ora vaneggia di restituire ai grillini il bottino che la crisi gli ha tolto, fermatelo! – e ribollito nel rosatellum. Una democrazia ridotta in poltiglia, ben prima del “contratto” nazipop.

 

Ha sbagliato, Salvini, forse per necessità, spremuto da Putin e soppressato dagli Zaia. Ora dovrà soffrire, che dolore. L’incubo ha già preso la forma di Berlusconi, richiamato in servizio (padronale) dopo il vaneggiamento dei pieni poteri. I 5ss giacobini si sono tagliati da soli le teste che pure non possedevano, il Pd è inetto perfino alla resistenza contro la democrazia illiberale. Ce ne faremo una ragione. Grillo e Renzi sono i nuovi capi partigiani, noi banditi ci avvolgeremo un fazzoletto azzurro al collo. Cottarelli è sull’uscio, Draghi ha il biglietto d’aereo in tasca. Mattarella non è Vittorio Emanuele III, non si andrà al voto, l’Italia si salverà.

 

Marco Taradash

Al voto subito o tra 5 anni, tanto è uguale

Di solito, nei consueti momenti di frenesia istituzionale e politica che il nostro paese attraversa, torno a leggere quella straordinaria opera di Giuseppe Prezzolini pubblicata per la prima volta nel 1917 sulla “Rivista di Milano”: il “Codice della vita italiana”. Pare che i fascisti avessero addirittura deciso di “sequestrala o dare una lezione all’autore”. E’ possibile trovare in quelle poche pagine ormai più che centenarie qualche risposte alla situazione attuale? A me sembra di sì. Innanzitutto credo di poter essere sicuramente classificabile, utilizzando le categorie di Prezzolini, come “fesso”: “Il fesso si interessa al problema della produzione della ricchezza. Il furbo soprattutto a quello della distribuzione”. In secondo luogo, credo sia terminologicamente sbagliato utilizzare l’espressione di cui certa pubblicistica abusa in questi giorni: “governo elettorale”. Come ci ricorda Prezzolini: “In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio”. Esiste (forse esisterà) solo “il governo”, senza aggettivi. Ma quindi andare subito a elezioni oppure no? La risposta principale credo che Prezzolini la offra nella sua introduzione all’opera: “Io ho fede nell’Italia piuttosto attraverso un rinnovamento educativo che attraverso uno politico, preferisco un miglioramento del carattere a una modificazione delle istituzioni”. Se questo è vero, caro direttore, probabilmente anche le prossime elezioni non saranno particolarmente rilevanti. Che si tengano subito oppure no.

 

Pasquale Annicchino

Un nuovo governo, ma per fare cosa?

La data delle elezioni dovrebbe essere il punto di arrivo di un ragionamento, e non quello di partenza. Così prescrive la Costituzione e così richiede il buonsenso. Con lo scioglimento dell’attuale maggioranza, il Presidente della Repubblica deve verificare se esista una maggioranza alternativa. Questo è il modo tecnico e asettico di affrontare il problema. Ma, sotto, c’è un tema assai più caldo: esiste, tra le forze politiche, un’idea comune di cosa fare, una volta ottenuto il potere? Chiunque voglia sostituire Giuseppe Conte dovrà ben presto chiarire – per citare solo alcuni dossier – se e come intenda impedire l’aumento dell’Iva, cosa fare con Alitalia, come gestire gli eventuali arrivi di nuovi barconi carichi di migranti, quali tasse tagliare e quali aumentare, dove fissare l’asticella del deficit, e così via. Se l’unica motivazione per costituire un nuovo governo fosse allontanare la (presunta) vittoria elettorale di Salvini, ciò imporrebbe un prezzo tanto più salato quanto più lunga fosse l’esperienza dell’accozzaglia al governo: il prezzo sarebbe quello di vendere l’anima, sacrificando tutto quello di buono che abbiamo raccontato in questi anni. Ossia che l’Italia ha bisogno di riforme che la rendano governabile, per evitare operazioni di Palazzo nel segno dell’ingovernabilità. La questione è, al fondo, assai semplice: o si combatte Salvini coi mezzi di Salvini, o si combattono le idee di Salvini con idee diverse e migliori. Ciascuno si faccia la domanda e si dia una risposta.

 

Carlo Stagnaro

Niente pieni poteri, per nessuno

La crisi di governo è il momento creativo della politica italiana. E’ il momento in cui saltano gli schemi e ognuno – giocatore, arbitro o commentatore – deve chiudere il quaderno degli appunti, per dimostrare sul campo quel che ha imparato. In breve, è il momento delle figure di merda. Prudenza consiglia dunque di procedere con ordine, riconoscendo le ragioni di chi non la pensa come noi e distinguendo gli argomenti magari non condivisibili ma razionali dalle pure scemenze. Personalmente, prima di andare al voto, vorrei un governo che riportasse l’Italia al proporzionale puro, per evitare che chiunque vinca domani possa cambiare le regole a suo piacere. In ogni caso, le posizioni razionali a me paiono due. Da un lato c’è chi ritiene che un ritorno immediato al voto e una vittoria di Matteo Salvini in queste condizioni – che per la legge elettorale e per altri fattori potrebbe consegnargli davvero i “pieni poteri” – significherebbe l’uscita dall’euro e dal sistema di alleanze internazionali dell’Italia, con la concreta possibilità di una trasformazione dello stesso ordinamento democratico sul modello ungherese. Dall’altro lato c’è chi ritiene che una vittoria di Salvini, sia pure in tali condizioni, non sarebbe una tragedia. E’ logico che per i primi qualunque ipotesi alternativa a un voto immediato sia il male minore, e per i secondi il contrario. Se ne può discutere senza insultarsi. Se proprio bisogna insultare qualcuno, mi concentrerei su quelli che, dopo averci spiegato che il trionfo di Salvini segnerebbe la fine della democrazia italiana, sostengono che questo non sia un valido motivo per dare ragione a Renzi, o per cambiare la loro legge elettorale preferita, o per rinunciare a una qualsiasi delle loro altre mille ossessioni personali. Come dice il proverbio, la fissazione è peggio della malattia.

 

Francesco Cundari

Sì ad accordi e ribaltoni, ma dopo il voto

Fare un governo è divertente ma comporta una terribile scocciatura aggiuntiva, quella di governare. Spuntano, nella vita dei governanti, assurde seccature come ad esempio quella di mandare avanti i lavori della Torino-Lione. Chi ha memoria lunga (una settimanella) ricorderà che su quel progetto europeo e italo-francese il voto parlamentare sulle mozioni vide la convergenza, sorprendente, dei voti leghisti e di Forza Italia sulla mozione del Pd apertamente favorevole alla prosecuzione dei lavori. Mentre nessuno, tranne i presentatori e i loro colleghi di partito, votava la mozione No Tav dei 5 stelle. Su quell’inciampo Salvini trovò lo spunto per dichiarare finita la collaborazione di maggioranza. Da allora, quasi da subito dopo quel clamoroso voto, le mozioni sono state dimenticate. E dimentichi di Torino e fregandosene toninellianamente di andare a Lione ecco la parte renziana e franceschiniana del Pd pronta al governo battezzato buffamente e senza ironia “notax”, assieme ai 5 stelle, da trattare come la pasta: cambia tutto a seconda del sugo che ci si mette sopra. Ma qui si argomenta per l’altra strada. Quella elettorale. A fine ottobre o a inizio novembre. I conti pubblici si affidano alle tabelle di spesa vigenti e poi si fa comunque in tempo a dare una aggiustata entro fine anno. Lo spread se ne sta buono a meno che non si facciano o dicano scemate anti-euro o non si invochi deficit a briglia sciolta. Queste cose prevalentemente le fanno i leghisti. E i mercati li colpiranno opportunamente prima e anche dopo il voto, in caso di loro vittoria. Lasciate fare, è un’operazione di chiarezza. Il leghista Durigon va in tv a parlare di“ sano deficit”? Si becca lo spread tra capo e collo e poi vedremo. Salvini non è detto che vinca le elezioni. E’ già partito il tradizionale rinculo dell’elettorato italiano di fronte allo scolapastista (in testa) che vuole i pieni poteri. Verrà spernacchiato. E purtroppo per lui quelle pernacchie sono il suo destino, che vinca o che perda. Allora si vada a votare, e poi ci saranno nuove occasioni meravigliose per fare accordi super trasversali e iper ribaltanti, scissioni e sub-scissioni, trasformismi e botte di responsabilità. Il Pd sarà un po’ più grandino, i 5 stelle rimpiccioliti, Salvini magari più sul 30/33 che sul 37. E tante cose serie premeranno, riportando in vista quella scocciatura del governare dopo aver fatto un governo.

 

Giuseppe de Filippi

Oltre i gialloverdi non c’è altra maggioranza

Il punto da cui partire per orientarsi nella complessa situazione che si è creata con la scelta della Lega è stato posto, in diverse occasioni, negli editoriali del Foglio: siamo al fallimento del governo gialloverde, è implosa la maggioranza tra populisti e sovranisti, il paese ha retto a fatica solo perché il loro programma, grazie all’Unione europea, non lo si è potuto realizzare. Ora la strada pare obbligata: scioglimento delle Camere e voto anticipato, al più presto. Non è la linea di Salvini. E’ quanto non potrà che accadere. Provo ad argomentare il perché. Non esiste una diversa maggioranza. Lo verificherà Mattarella. Escludo sia possibile, allo stato, un governo sulla base di una intesa tra Pd e 5 stelle (con ministri di entrambi?) che dovrebbe fare una manovra finanziaria impegnativa per scongiurare aumento dell’Iva. Dovrebbe concludere l’iter della legge costituzionale per ridurre numero parlamentari, misura che mette a rischio rappresentatività del Parlamento e che comporterebbe la revisione dei collegi e della legge elettorale. Chi lo guiderebbe un governo del genere? Conte? Fico? Mi sembra francamente irrealistico. Che interesse avrebbe il Pd ad avventurarsi su una simile strada? Veramente così si difenderebbero gli interessi dell’Italia? Si ridurrebbe per questa via la presa di Salvini? Non mi pare. Se prendesse corpo una simile operazione politica, Salvini ne sarebbe soddisfatto. L’unica possibilità per un rinvio ragionevole delle elezioni tale da essere compreso dagli italiani sarebbe dare una caratterizzazione tecnica al governo sulla base di una forte iniziativa del Quirinale. Un governo con la missione limitata ad avviare il lavoro per la legge di bilancio individuando le misure più opportune per evitare aumento Iva e portare al voto il paese, al più presto. Un simile governo tecnico, stento a credere possa ricevere il sostegno dei grillini che, della opposizione ai tecnici, hanno fatto la loro bandiera.

 

Insomma, crollata la coalizione giallo-verde non esiste un’altra maggioranza. Questa è la realtà. Non la pretesa di Salvini. Quando infine leggo che Grillo, il vero capo dei “barbari” auspica una unione sacra per sconfiggere il “barbaro” ho la conferma dell’abisso in cui è precipitata la politica nel nostro paese. 

 

Umberto Ranieri


Il punto da cui partire per orientarsi nella complessa situazione che si è creata con la scelta della Lega è stato posto, in diverse occasioni, negli editoriali del Foglio: siamo al fallimento del governo gialloverde, è implosa la maggioranza tra populisti e sovranisti, il paese ha retto a fatica solo perché il loro programma, grazie all’Unione europea, non lo si è potuto realizzare. Ora la strada pare obbligata: scioglimento delle Camere e voto anticipato, al più presto. Non è la linea di Salvini. E’ quanto non potrà che accadere. Provo ad argomentare il perché. Non esiste una diversa maggioranza. Lo verificherà Mattarella. Escludo sia possibile, allo stato, un governo sulla base di una intesa tra Pd e 5 stelle (con ministri di entrambi?) che dovrebbe fare una manovra finanziaria impegnativa per scongiurare aumento dell’Iva. Dovrebbe concludere l’iter della legge costituzionale per ridurre numero parlamentari, misura che mette a rischio rappresentatività del Parlamento e che comporterebbe la revisione dei collegi e della legge elettorale. Chi lo guiderebbe un governo del genere? Conte? Fico? Mi sembra francamente irrealistico. Che interesse avrebbe il Pd ad avventurarsi su una simile strada? Veramente così si difenderebbero gli interessi dell’Italia? Si ridurrebbe per questa via la presa di Salvini? Non mi pare. Se prendesse corpo una simile operazione politica, Salvini ne sarebbe soddisfatto. L’unica possibilità per un rinvio ragionevole delle elezioni tale da essere compreso dagli italiani sarebbe dare una caratterizzazione tecnica al governo sulla base di una forte iniziativa del Quirinale. Un governo con la missione limitata ad avviare il lavoro per la legge di bilancio individuando le misure più opportune per evitare aumento Iva e portare al voto il paese, al più presto. Un simile governo tecnico, stento a credere possa ricevere il sostegno dei grillini che, della opposizione ai tecnici, hanno fatto la loro bandiera.

 

Insomma, crollata la coalizione giallo-verde non esiste un’altra maggioranza. Questa è la realtà. Non la pretesa di Salvini. Quando infine leggo che Grillo, il vero capo dei “barbari” auspica una unione sacra per sconfiggere il “barbaro” ho la conferma dell’abisso in cui è precipitata la politica nel nostro paese. 

 

Umberto Ranieri


Patto a termine per far scendere la febbre

Era immaginabile, a giudizio di alcuni esponenti democratici, uno schema alternativo a quello gialloverde già all’esito del voto politico del marzo 2018. Con una evidente supremazia dei Cinque stelle, fautori in campagna elettorale e nella storia precedente di un progetto politico massimalista, illiberale e fondamentalista, tutto rivolto contro la stagione di governo del Pd sconfitto alle urne. Una resa, umiliante, saggiamente impedita da un colpo di reni di Matteo Renzi. Ne scaturì una mossa di Salvini, rivelatrice dell’inconsistenza strutturale del profilo identitario dei cinque stelle: al governo, con il metodo ingannevole del contratto davanti agli italiani, come se l’azione di governo potesse essere imbalsamata in un patto di sindacato. Un presidente del Consiglio puro e semplice mediatore, democristiano alla maniera di Goria in sedicesimo. Obiettivo di Salvini: prosciugare il bacino elettorale dei cinque stelle e assorbire un pezzo di Forza Italia smaniosa di tornare al potere. Siamo in piena democrazia parlamentare, consolidata da una legge elettorale proporzionale e da un rigetto fragoroso di qualsiasi tentativo di riforma maggioritaria del sistema istituzionale. Accadono poi fatti rilevanti: un congresso del Pd alla ricerca di un cambio di leadership senza uno scontro vero, sul campo, chiarificatore e infine anche senza più una leadership; un’azione di governo egemonizzata da una Lega sempre più estremista, sul versante più delicato dell’inasprimento di pena, del giustizialismo greve, del machismo tecno-beach, del monologo antieuropeo russofilo e opaco, con l’aggravante del contagio militaresco e attaccabrighe posto in essere dal responsabile del Viminale. Dal ministro dell’Interno. Odore di caserma, e di gavettoni, e di risse, e di frasi scomposte. E di militarizzazione della vita civile, perché l’immigrazione è un fatto civile ed economico, non di polizia. E un consolidamento dei cinque stelle su una linea neo reazionaria, sul versante della demagogia spazza corrotti in realtà spazza garanzie di difesa, spazza sviluppo, spazza occupazione.

 

Salvini apre la crisi per incassare, famelico. L’obiettivo di impedirglielo è una sacrosanta ragione politica. E il voto politico delle europee non ha mancato di provocare uno scossone: è emersa una possibile maggioranza delle destre coalizzate. Non si vede perché aprir loro la strada per farlo, visto che lo scioglimento anticipato impone, non prevede, impone, al presidente della Repubblica la ricerca preventiva di soluzioni alternative. Ma per farlo serve dare anche risposta a due questioni: l’impreparazione del Pd e la non prospettabilità di una alleanza politica con i cinque stelle. Alla prima si dà voce rimettendo tutto in gioco, se del caso separando ciò che non sta insieme peraltro nemmeno quando sta al governo, causandone gran parte dei guai. Alla seconda, negando un’intesa politica e scegliendo invece un percorso condiviso di gestione della crisi e dei suoi esiti che rimetta in armadio le divise e abbassi i decibel delle casse acustiche. Un tempo nel quale si proverà ad evitare l’ennesimo inasprimento fiscale figlio del dissesto di un anno terribile, a rimettere al loro posto i guitti e i loro profeti, mettendo in campo un'alternativa credibile. Non un partito, una proposta alternativa che si occupi delle persone, del reddito, di casa, scuola e lavoro. Con un (una) leader carismatica, credibile, che spacchi la coltre velenosa del machismo salviniano. Con chi ci sta, adesso, non un governo politico, ma una alleanza a termine, che provi a far scendere la febbre e ad alzare la voce delle istituzioni prima del match. Non sta scritto da nessuna parte che le regole della partita le decida la squadra più forte sulla carta e non in Parlamento.

 

Carlo Cerami