La pazza crisi
Si agitano eppure non si muovono. Conte resta a Chigi, Salvini al Viminale e il governo si scioglie solo in spiaggia
Roma. E’ la crisi più surreale di sempre, anomala per i tempi e le procedure utilizzate, sospesa tra l’ordinaria amministrazione e la catastrofe. Nella giornata del voto al Senato sulla calendarizzazione delle comunicazioni del presidente del Consiglio, ovvero lo showdown della crisi, i principali protagonisti si comportano come se nulla fosse. Giuseppe Conte prima va a fare visita agli anziani in una casa di cura a Roma e poi è a Foggia per la firma di un “contratto istituzionale di sviluppo”, mentre Salvini – dopo aver staccato la spina al governo gialloverde – lascia la spiaggia ed è insolitamente di buon mattino al Viminale “al lavoro per evitare lo sbarco di oltre 500 immigrati a bordo delle navi di due Ong”, annuncia sui social.
Sono alcune delle stranezze di una crisi anomala nei tempi – ad agosto si ricorda solo la crisi del governo Spadolini risolta in poco tempo con un governo fotocopia – e nelle modalità. Il M5s vota una mozione sulla Tav contro il presidente del Consiglio ritenendo che ciò non abbia ricadute sul governo, il premier fa finta che la sua maggioranza non sia saltata per aria e non chiede una verifica parlamentare, il ministro dell’Interno – che ha incassato due vittorie su decreto sicurezza e Tav – dice che il governo è finito ma non si dimette. E per giunta fa presentare una mozione di sfiducia contro il governo di cui è vicepremier, ovvero contro se stesso. “A suo modo è una classica crisi di un governo di coalizione – dice Marco Olivetti, costituzionalista alla Lumsa di Roma – che si rompe quando uno dei due partiti esce dalla coalizione. In passato il presidente del Consiglio si sarebbe dimesso, accadeva anche quando usciva un partito non necessario alla maggioranza”.
Ma Conte non prende atto dell’implosione della maggioranza e non sale al Colle per rimettere il mandato. Salvini afferma che il governo è morto, ma non lascia il Viminale né chiede alla delegazione della Lega di abbandonare il governo. Fu Prodi, nella storia della Repubblica, a introdurre la “crisi parlamentare”. Quando finì il suo secondo governo, con un voto di sfiducia, Clemente Mastella – che da democristiano aveva la nomea di essere attaccato alla poltrona – portò l’Udeur all’opposizione, ma prima si dimise da ministro della Giustizia. Oggi invece Conte chiede di parlamentarizzare la crisi, proprio come Prodi, ma lo fa soltanto dopo che la Lega ha presentato una mozione di sfiducia; mentre Salvini passa all’opposizione, come fece Mastella, ma senza dimettersi. “Ritirare i ministri? No, perché mai”, dice Salvini prima di entrare in Senato, da dove poi annuncia la disponibilità a ridurre il numero dei parlamentari con il M5s, proseguendo quindi a tempo indeterminato a fare il ministro dell’Interno. “Dico all’amico e collega Luigi Di Maio: votiamo il taglio dei parlamentari e poi andiamo subito al voto”.
Non si sa quando il governo cadrà né cosa ci sarà dopo, così nessuno si muove: Conte allunga il brodo delle comunicazioni al Parlamento, M5s e Pd allontanano le elezioni, Salvini rimanda la sua uscita dal Viminale. In questi tempi di comunicazioni istantanee e di maggioranze che si squagliano sotto il sole di Milano Marittima, la crisi si consuma lentamente, in trincea, ognuno a difesa delle proprie postazioni. Il massimo dello spostamento con il minimo del movimento. “Sembra che gli strumenti tradizionali di segnalazione della crisi non funzionino più – dice Giovanni Guzzetta, costituzionalista a Tor Vergata – ciò che in passato era un segnale di crisi di governo ora viene ignorato”. Il M5s ha aperto la crisi con una mozione sulla Tav contro il governo, pensando però che fosse priva di conseguenze. Conte ha finto che il voto contrario sulla Tav del M5s non sancisse una spaccatura politica nella maggioranza. Salvini ha ritenuto di poter sfiduciare l’esecutivo restando al governo. “Ciascun attore vive nell’incertezza di non poter percepire le conseguenze dei propri atti politici”, dice Guzzetta. “Una mozione come quella sulla Tav, così come il ritiro dei ministri, avrebbero fatto cadere il governo un minuto dopo. Ma oggi non è così. Non c’è una grammatica politica condivisa”. Nell’incertezza grammaticale e nell’incomprensione istituzionale, tutti rilanciano mantenendo però le posizioni. Salvini, per rimettere Renzi all’angolo, va a vedere il bluff di Di Maio sul taglio dei parlamentari e Di Maio accetta la proposta di Salvini: “Facciamolo subito”. La maggioranza scomposta potrebbe ricomporsi. E la crisi più surreale della storia della Repubblica continua.
Antifascismo per definizione
Parlare di patria è paccottiglia nostalgica e un po' fascista? Non proprio
cortocircuiti Nimby