Il rovescio delle regioni
Sprechi, diseguaglianze, scandali e debiti alle stelle. Altro che nuove autonomie, come vuole la Lega
Wallace E. Oates, chi era costui? Non era un influencer eppure ha esercitato ampiamente la sua influenza fin da quando nel lontano 1972 ha pubblicato un libro che ha legittimato pulsioni antiche non soltanto negli Stati Uniti, ma in Europa e persino in Italia. Il libro s’intitola “Federalismo fiscale”, non sappiamo se Attilio Fontana e Luca Zaia lo abbiano letto, o se abbia ispirato Umberto Bossi il quale arrivò a Carlo Cattaneo partendo da Alberto da Giussano (che secondo gli storici non è mai esistito). Non poteva non conoscerlo Gianfranco Miglio il gran guru della Lega Nord. In ogni caso, galeotto fu quell’oscuro (ai più) professore americano morto nel 2015, il quale, dopo aver studiato a Stanford e Princeton, ha insegnato per 35 anni all’università del Maryland.
Secondo il teorema che prende il nome da Oates, il decentramento ridurrebbe le inefficienze che si generano su spese e imposte
Alessandro Santoro, docente di Scienza delle finanze a Milano Bicocca, spiega che secondo il teorema che prende il nome da Oates, il decentramento servirebbe a ridurre le inefficienze che naturalmente si generano quando il mix di spesa e imposte è gestito a livello centrale mentre le preferenze individuali rispetto alla composizione ideale di questo mix sono molto eterogenee sul territorio nazionale. In questo caso, gli enti locali potrebbero specializzarsi offrendo pacchetti differenziati di servizi e prelievo fiscale, e ogni cittadino così sarebbe in grado di scegliere dove risiedere in modo da trovare la combinazione a lui congeniale. Chi non è soddisfatto di come funzionano le cose, per esempio a Roma (e sono davvero molti) potrebbe andarsene altrove; se non gli è possibile o magari viene respinto, potrebbe eleggere nuovi amministratori capaci di cambiare il rapporto tra imposte e servizi (in quantità e in qualità). E’ il cosiddetto “voto con i piedi” (la traduzione in italiano ci fa scendere dalle altezze della teoria alla crassa attualità) che porta alla suddivisione del territorio in una serie di enti autonomi, omogenei al loro interno.
Si tratta di un modello ideale che frantuma lo stesso sistema federale americano dove i Federalisti delle origini, come Alexander Hamilton, erano in realtà fautori di un governo centrale forte per tenere insieme i diversi stati e di una banca centrale per finanziarli. E’ un modello che si sposa con la miniarchia del filosofo americano Robert Nozick, guru dei libertari. E’ a questo che pensano Zaia, Fontana e i loro seguaci? Può darsi che abbiano in mente uno stato centrale minimo, anche se, in realtà, con i due referendum in Veneto e Lombardia si è tornati all’antico localismo separatista, con due regioni che vogliono diventare a statuto speciale come la Sicilia, Trentino o Valle d’Aosta, rischiando di frantumare ancor più il paese dei mille campanili senza per questo prevedere una intelaiatura davvero federale.
Il sistema delle regioni esiste solo sulla carta fino al 1970. Nel 2001 ha inizio la seconda fase con la riforma del Titolo V
Ma Oates non c’entra nulla e poco c’entra anche Cattaneo. Perché dietro allo scontro sull’autonomia che divide il governo gialloverde e le opposizioni, sia quella azzurra sia quella rossa, si staglia il fallimento delle regioni. Sono nate con la Repubblica, ma esistono solo sulla carta fino al 1970 quando vengono eletti per la prima volta i consigli regionali. I precursori ottocenteschi sono due milanesi, il giurista Cesare Correnti e il medico Pietro Maestri, milanese era anche Cattaneo che tentò inutilmente di far passare l’idea di un’Italia unita su base federale. Provò a convincere anche Giuseppe Garibaldi a Napoli, ma quando il liberatore del sud decise di passare armi e bagagli al Piemonte e ai Savoia, il filosofo e patriota se ne tornò deluso e disgustato in Svizzera. Nel 1972 con l’approvazione dei decreti delegati sono state trasferite alle regioni alcune funzioni fondamentali che prima erano appannaggio dello Stato: assistenza scolastica, musei e biblioteche, assistenza sanitaria ed ospedaliera, trasporti, turismo, urbanistica, viabilità, istruzione artigiana e professionale. Nel 2001 ha inizio la seconda fase con la riforma del Titolo V della Costituzione (approvata dall’allora maggioranza di centrosinistra con soli quattro voti di scarto). L’iter era cominciato il 18 marzo 1999, quando il presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema, già presidente della Commissione bicamerale, presentò al parlamento una nuova proposta di legge costituzionale dal titolo: “Ordinamento federale della Repubblica”, in base alla quale veniva stabilita una vera e propria gerarchia di poteri e competenze tra stato centrale e regioni.
Gli italiani erano diventati federalisti? Erano ormai federalisti anche gli eredi di quel Partito comunista che, guidato da Palmiro Togliatti, era rimasto legato all’impianto centralista? E’ la rivincita postuma di Cattaneo (che del resto era un uomo di sinistra)? Ha coronato così la sua battaglia il lùmbard Umberto Bossi, in una destra guidata dal milanese Silvio Berlusconi? Se tutto ciò fosse vero, sarebbe un segno di grande maturità: una politica audace capace di ridisegnare l’architettura dello stato. La realtà, a vent’anni di distanza, appare molto più prosaica. E’ prevalso nel ceto politico di allora un calcolo tattico che si sposava con l’onda lunga anti-istituzionale gonfiatasi via via da Mani pulite in poi. Ma soprattutto l’hanno avuta vinta i potentati locali. Franco Bassanini nell’analizzare “la più grande riforma istituzionale dopo il 1948” spiega che mancano alcuni passaggi fondamentali. Le regioni limitano i poteri del parlamento, però questa parte essenziale della “grande riforma” non è stata mai affrontata. Ci ha provato Matteo Renzi proponendo di trasformare il Senato in una camera delle regioni ispirata al Bundesrat della Germania che è una repubblica federale, ma lo hanno impallinato. E non è stata mai risolta nemmeno un’altra questione di fondo: le risorse che oggi vengono distribuite annualmente attraverso la conferenza stato-regioni.
Una riforma fiscale in senso regionale se non proprio federale non è mai stata realizzata. Oates in Italia va bene solo in qualche università. Alla fine degli anni Novanta sono state introdotte l’Irap per finanziare le Regioni e le imposte sugli immobili per finanziare i Comuni. L’Irap, dopo diverse alterne vicende, è stata ridimensionata nella sua base imponibile per diventare, infine, una sorta di riedizione dell’Ilor. Le imposte sugli immobili sono state riformate talmente tante volte da rendere difficile perfino capire come si chiamino, e oggi ci troviamo di fronte al paradosso che la prima fonte di entrata per i comuni allo scopo di finanziare i servizi ai propri residenti è un’imposta che non è pagata dai propri residenti. Le risorse proprie degli enti locali sono le addizionali regionali e comunali all’Irpef, sulle quali, peraltro, gli enti locali hanno limitata possibilità di scelta, periodicamente azzerata dai governi centrali che congelano le possibilità di variare le aliquote. Il federalismo delle entrate non ha funzionato e il federalismo della spesa? Dove si è spinto maggiormente in avanti è il riparto del Fondo sanitario nazionale, ma si è impantanato, incapace di risolvere il nodo di fondo che in realtà è più economico che politico, cioè peso del fabbisogno standard (che dovrebbe tenere conto solo delle condizioni di efficienza nell’erogazione del servizio) e quello della spesa storica (che riflette tendenze decennali). Qui siamo e qui resteremo. E il progetto sulle autonomie non offre soluzioni, prende solo atto della frattura, come ha scritto il giurista Cesare Mirabelli.
Le province, in teoria abolite, sono rimaste in una terra di nessuno, le città metropolitane ectoplasmi succhia-denaro senza identità
Ma esistono davvero le regioni o sono solo un apparato politico-burocratico che si sovrappone a province e comuni, dove questi ultimi restano i più penalizzati? Se volessimo rispettare la storia è ai comuni che dovremmo dare maggior peso, potere e risorse. Sono loro ad aver creato l’Italia, la sua cultura, la sua economia, la sua struttura politica, dal Medioevo in poi. La cartina delle regioni venne disegnata verso la fine dell’800 da Cesare Correnti, primo presidente della Società geografica. Durante l’Assemblea Costituente vinse il regionalismo di don Luigi Sturzo, ma non sapendo come tradurlo in pratica si andò a ripescare quella vecchia ripartizione statistica basata sulla popolazione e sul reddito. Si trattava in ogni caso di confini artificiali e artificiosi, privi di una vera ragione storica, senza una tradizione culturale o economica a dare corpo e anima a quelle linee disegnate sulla cartina. Anni fa, mentre si discuteva di abolire le province, la Società geografica italiana ha elaborato una nuova mappa che propone altri accorpamenti. Milano si unisce a Pavia, Brescia forma un terzetto con Verona e Mantova, Pisa e Livorno finiscono sotto lo stesso tetto con l’aggiunta di Lucca, Massa, Carrara e La Spezia. Roma si fonde con Viterbo e Rieti, Napoli con Caserta, mentre Abruzzo, Umbria e Basilicata diventano di fatto province. Dal loro punto di vista, avrebbe più senso cancellare le regioni piuttosto che le province anche se queste ultime sono un residuo del centralismo napoleonico, a cominciare dai prefetti che fanno capo al ministero dell’interno, che aveva ispirato l’impianto del Regno d’Italia. Le province, abolite sulla carta sono rimaste in una terra di nessuno, le città metropolitane sono ancora degli ectoplasmi succhia-denaro senza una vera identità, mentre da tempo si discute di macro-regioni: giacciono in Parlamento diversi progetti con nuove mappe che tengono conto o dei legami storici o delle nuove configurazioni economiche perché, al contrario di quel che pensano i sovranisti, è la storia (e lo sviluppo economico che ne fa parte) a delineare il territorio e non viceversa.
Pochi ricordano che la Lega Nord nei primi anni ’90 aveva addirittura pensato a un accorpamento tra il Lombardo-Veneto e la Baviera, trovando udienza in alcuni esponenti della Csu, il partito cristiano sociale bavarese. Lasciare l’Italia è una spinta che viene da lontano, ma allora almeno si voleva “stare nel cuore dell’Europa”, oggi si preferisce rimanere a casa propria. Il paese, intanto, cambia ogni giorno che passa. Due terzi della popolazione vive ormai in grandi aree urbane a ridosso delle principali città: Milano, Roma, Napoli, Torino, Palermo. La costa adriatica è una successione quasi ininterrotta di case e aziende da Chioggia a Bari. Basta percorrere la Firenze-Livorno per capire come si sviluppa la Toscana. La Liguria scoppia. Mentre l’intera dorsale appenninica dall’Umbria meridionale all’Aspromonte è ormai semi-abbandonata. In nessun modo gli attuali confini regionali rappresentano questa realtà.
Per giudicare fino in fondo le regioni, bisogna osservare i risultati sulla Sanità. Leggendaria la differenza di prezzo delle siringhe
Per giudicare fino in fondo le regioni, andiamo a vedere il risultato nel campo che più è loro proprio: la Sanità. Il servizio sanitario nazionale è frantumato in tanti servizi sanitari regionali. L’esperienza quotidiana dice che per curarsi di grandi mali la gente va a Milano, a Torino, a Pavia, a Padova, a Bologna, a Roma, a Napoli (sempre meno perché le strutture campane sono, per usare un eufemismo, sotto stress). La concentrazione negli ospedali di eccellenza s’è fatta parossistica in un paese invecchiato in modo tanto massiccio, ma chi ha qualche decennio sulle spalle ricorda che, in fondo, sono gli stessi luoghi, con poche eccezioni, verso i quali si dirigevano i viaggi della speranza negli anni ’70. Le regioni che avrebbero dovuto decentrare e sviluppare i loro poli locali, anche da questo punto di vista non hanno realizzato le loro promesse.
Se passiamo poi ai costi, discorso da ragionieri eppure fondamentale visto l’ammontare della sola spesa sanitaria, circa 118 miliardi di euro pari al 9 per cento del prodotto lordo (36,5 miliardi per il personale), il tradimento diventa insopportabile. La storia del debito pubblico italiano corre in parallelo con le regioni. Dal 2001 a oggi il debito compie un balzo di ben mille miliardi di euro, in termini percentuali sale di circa trenta punti rispetto al prodotto lordo. Non è solo colpa della regionalizzazione o degli sprechi, c’è di mezzo un decennio di crisi che ha aggravato gli ammortizzatori sociali, ma chiunque abbia tentato in questi anni di gettare uno sguardo nei meandri della spesa corrente, da Enrico Bondi a Carlo Cottarelli, è precipitato nel pozzo di san Patrizio della finanza decentrata. E’ diventata leggendaria la differenza nel prezzo di una siringa tra Palermo e Milano, così come la quantità di dipendenti della regione Sicilia che continua a crescere a ogni elezione senza un vero riscontro con la quantità e qualità dei servizi offerti. Un terzo del lavoro della Corte costituzionale riguarda contenziosi e conflitti di attribuzione tra lo stato e le regioni – ha scritto Goffredo Buccini nel suo libro “Governatori. Così le Regioni hanno devastato l’Italia” (Marsilio editore). Ma non è solo una questione di attribuzioni giuridiche, di distribuzione dei poteri (pure importanti) o di governatori e presidenti messi sotto inchiesta (pochi sono sfuggiti al Grande inquisitore e molti sono stati rovinati politicamente prima di finire assolti). No, il fatto è che è fallita anche l’altra grande promessa, quella di costruire una nuova classe politica che partisse dal basso, dal territorio, e rinnovasse la classe politica fabbricata in batteria, delegittimata da Tangentopoli. Da allora ad oggi gli scandali si sono moltiplicati proprio a livello regionale e non solo nel tanto deprecato Mezzogiorno: parliamo del Piemonte, della Lombardia, della Liguria e via di questo passo. Siccome la storia e la politica non vanno scritte dai brogliacci della polizia o dai fascicoli delle procure, bisogna dire che quel processo di selezione dal basso funzionava finché c’erano i partiti di massa. Sono stati loro gli ascensori politico-sociali. Quel meccanismo non funziona più nell’epoca in cui si impone da un lato il cesarismo, dall’altro l’anarchia del web. Non c’è oggi in Italia nessun leader politico nato nel pollaio locale che abbia un respiro nazionale. Inutile fare nomi, appaiono tutti i giorni in televisione e sui giornali. Basta ascoltare i loro discorsi e leggere le loro interviste, sentire il loro italiano storpiato un po’ per compiacere il popolo grasso e quello minuto, un po’ per propria mancanza. Non è questione di nord e sud, dunque. Né di ricchi e poveri. E’ davvero una questione nazionale se ancora esiste una nazione e, paradosso tra i paradossi, non viene smembrata dai sedicenti neo-nazionalisti.
L'editoriale del direttore