Si può morire di aiuti

Carlo Amenta

Tutti i fallimenti delle politiche per il Mezzogiorno. Un libro spiega cosa si dimentica nel dibattito sul Sud

Una condanna senza appello. E’ questo l’ultimo pensiero impresso nella mente del lettore del saggio di Antonio Accetturo e Guido de Blasio sull’efficacia delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno negli ultimi 60 anni, edito dall’Istituto Bruno Leoni (“Morire d’aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud – e come evitarli”, Ibl libri).

Quando poi quel lettore è un attempato quarantenne che vive e lavora in Sicilia, una delle regioni che più di ogni altra rappresenta le cause che gli autori individuano come determinanti dei fallimenti delle politiche per il Sud (assenza di capitale sociale e scarsa qualità delle istituzioni) e dei loro effetti indesiderati (attività di estrazione di rendite e finanziamento delle attività criminali), capite che comincia l’affannosa ricerca del passaporto, l’acquisto dello spago per la valigia e la consapevolezza che non è mai troppo tardi per “votare con i piedi”. Non è un caso che i dati pubblicati dallo Svimez raccontino di un Sud da cui sono partiti, dal 2002 al 2017, oltre 1 milione di giovani (di cui, un quarto laureata). E se è vero, come ci ricorda Carlo Maria Cipolla nel suo “Storia economica dell’Europa pre-industriale”, che una tale emigrazione delle coorti più giovani è un indicatore infallibile del declino di una regione, il futuro non appare roseo.

 

I due economisti, con linguaggio accessibile, dovizia di fonti e un approccio meramente positivo, raccontano con impietoso distacco il fallimento di tutte le politiche pensate per lo sviluppo del Mezzogiorno, dalla Casmez alla legge 488 del 1992, dai patti territoriali ai contratti d’area, passando per gli interventi di politica industriale. Dall’ecatombe sembra salvarsi, e parzialmente, per motivi più legati alle condizioni di partenza delle regioni interessate e al meccanismo tecnico adottato, l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno dal 1950 al 1970 che viene così accostata, tra le esperienze internazionali di cui gli autori fanno ampia rassegna, alla Tennessee Valley Authority (Tva) che, a partire dal 1933, ha migliorato le condizioni economiche delle aree interessate. Anche i fondi strutturali europei superano le forche caudine dell’analisi di Accetturo e de Blasio, soprattutto se la qualità delle istituzioni consente di spendere con efficacia, rimarcando così l’importanza del legame con entità sovranazionali che consentono di superare le pressioni locali.

 

Il lettore arriva avidamente alla fine del libro come se leggesse un giallo al contrario: conosce i fatti, ha capito il movente e ha chiara l’occasione ma, in questo caso, gli hanno già svelato i colpevoli che continuano a farla franca. Sfoglia le ultime pagine freneticamente aspettando di conoscere la policy che tutto può risolvere e che racconterà al tramonto, sorseggiando un gin & tonic, a tutti gli emigranti di ritorno davanti al chiosco sulla spiaggia che spendono i soldi faticosamente guadagnati altrove e contribuiscono così, con le loro rimesse, a un’economia di puro sostentamento. I due autori però non lo accontentano e, da seri economisti interessati più a raccontare la realtà che a cercare di guidarla nel tentativo di scalzare i filosofi di platonica memoria, ci dicono che l’importante è il metodo scelto per l’analisi e che solo una diversa impostazione del problema può dare risposte efficaci. Così, privati del quarto d’ora di notorietà all’aperitivo serale, non resta che riflettere sulla possibile risposta di fronte ad una situazione già tragica su cui si inserisce il progetto dell’autonomia delle regioni del Nord. I meridionali si trovano di fronte a un bivio: possono principiare il consueto piagnisteo sul pericolo di secessione, sulla letteratura che ha riletto l’Unità come sfruttamento del Nord ai danni del Sud, oppure possono chiedere un cambio radicale nel sistema di gestione delle risorse, che tenga conto delle legittime aspirazioni dei cittadini del Nord a spendere con efficienza e di quelli del Sud a ottenere una uguaglianza di opportunità finalizzata a mettere in concorrenza le regioni in ragione delle differenze di contesto già esistenti.

 

Non condivido le certezze dei politici del Nord sulla possibilità del mantenimento futuro degli attuali livelli di efficienza, in un sistema nel quale le imposte raccolte dallo stato centrale vengono spese localmente per raccogliere il consenso dei propri governati. Le maggiori risorse, non direttamente chieste agli stessi cittadini per i quali vengono impiegate, saranno presumibilmente sprecate perché i politici, a qualunque latitudine, non sanno resistere a un pasto gratis che gli permetta di aumentare il consenso.

 

La richiesta di autonomia del Nord deve diventare l’occasione per cambiare l’architettura dello stato, adottando meccanismi di imposizione su base locale per i servizi che vengono devoluti dalle regioni, tenendo davvero conto delle differenze regionali e adottando un sistema di trasferimenti temporaneo che consenta alle regioni del Sud la possibilità di competere, realizzando una vera uguaglianza di opportunità. Le risorse andrebbero spese adottando il metodo che gli autori sembrano privilegiare: conoscere il passato per non ripeterne gli errori. I fondi andrebbero dedicati esclusivamente alle infrastrutture (incluse le reti per i servizi e la logistica oltre che autostrade e collegamenti efficienti) perché, se è vero come evidenziano gli autori che investimenti di tale natura funzionano meglio quando la dotazione iniziale è bassa, si può constatare al Sud siamo tornati a quella di partenza.

Si lascino quindi libere le regioni di tassare e spendere per le competenze che rivendicano ma anche di liberalizzare le condizioni di contesto, dal costo del lavoro alle barriere all’entrata per le imprese, superando così il tabù di una unità nazionale che esiste solo sulla carta e dando la possibilità di sfruttare le differenze per attrarre gli investimenti e competere, camminando sulle proprie gambe o fermandosi definitivamente.

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