Basta con la “secessione dei ricchi”. Sul divario con il nord l'élite meridionale abbandoni il vittimismo

Paolo Macry

Il fuoco della protesta meridionale si è riacceso sul tema del regionalismo differenziato: il rischio è di allontanare il sud non solo dal nord, ma dal paese intero

E’ carta conosciuta, direbbero a Napoli. Un déjà-vu. Un disco rotto. Sono più o meno centocinquant’anni che meridionalismo fa rima con vittimismo, complottismo, rivendicazionismo. Ogniqualvolta il Sud ha fatto capolino nel discorso pubblico, la retorica è stata sempre la stessa, questa. Perfino negli anni d’oro del secondo dopoguerra. De Gaperi investiva mille miliardi nella Cassa del Mezzogiorno? Era un favore alla grande industria del Nord, “uno strumento del capitale americano” (Alicata), “un centro di corruzione” (Amendola), “un attacco alla vita meridionale” (Sereni). Lo diceva il Pci, lo pensava larga parte dell’opinione pubblica locale. Del resto il dualismo è sempre stato fenomeno troppo grosso perché la politica potesse resistere alla tentazione di farne un potente atout elettoralistico. Con la conseguenza che il Mezzogiorno vittimizzato e recriminatorio è poi diventato il Mezzogiorno ministeriale, crispino, giolittiano, fascista, democristiano, berlusconiano, grillino. Leghista?

 

Cose simili perciò, fatta ogni debita proporzione, si sentono ancora oggi, nell’anno di grazia 2019. Oggi che il sempiterno fuoco della protesta meridionale si è acceso, con gran crepitare di legnetti, sul tema del regionalismo differenziato. Del quale, presumibilmente, il “cittadino meridionale qualunque” si sta facendo un’opinione catastrofica. E’ il Nord che vuole tenersi per sé tutti i soldi, gli dicono schiere di economisti, giuristi, sociologi. E’ il drammatico assottigliarsi dei trasferimenti pubblici al sud. La tomba della coesione territoriale. La dissoluzione dello stato-nazione. Perfino un accademico pensoso come Gianfranco Viesti non ha trovato di meglio che lanciare lo slogan della “secessione dei ricchi”. Parole che riuscirebbero a incendiare anche un covone fradicio di pioggia. E tanto più opinabili perchè il regionalismo differenziato è materia complessa, andrebbe spiegata all’opinione pubblica con onestà intellettuale, bisognerebbe parlarne con grande cautela. In gioco, dopotutto, c’è un equilibrio difficile, ma strategico – un equilibrio mai raggiunto nella vicenda infinita del dualismo – fra diversificazione ed eguaglianza, fra competizione e cooperazione. Cose molto serie, che non andrebbero strapazzate con scorciatoie populistiche. Che non andrebbero avvolte nelle nebbie di un meridionalismo che si conferma come l’Araba fenice del discorso pubblico italiano, l’unica ideologia sopravvissuta al crollo delle ideologie. Senza dire, poi, che si tratta di un processo in divenire, di una materia legata mani e piedi alla politica chiacchierona dell’Italia gialloverde, sicché neppure è detto che vedrà mai la luce.

Certo è che, al momento, malgrado le bozze di intesa rese pubbliche dal ministro degli Affari regionali Erika Stefani, c’è molto poco di deciso e ancor meno si sa per decidere a ragion veduta. Non è chiaro se l’aumento dei finanziamenti alle regioni “differenziate” verrà ottenuto a scapito delle altre regioni o se invece la crescita della produttività del Lombardo-Veneto e dell’Emilia-Romagna costituirà un vantaggio per tutti. Non è chiaro se una parte delle economie di spesa settentrionali verrà trasferita allo stato o se assottiglierà le risorse destinate al sud. Non è chiaro se la meritocrazia istituzionale interromperà (finalmente) l’odierno appiattimento verso il basso delle prestazioni pubbliche o piuttosto accentuerà la distanza tra “virtuosi” e “viziosi”. Non è chiaro insomma se cambierà e come il rapporto tra decentramento, efficienza e coesione. E non è chiaro, tutto ciò, perché il confronto politico è aperto, anzi è in alto mare. Ma, prima ancora, perché è difficile prendere decisioni fondate su evidenze, visto che le stesse evidenze sono materia controversa. E basti ricordare come neanche la metà dei trasferimenti stato-regioni, appena 220 miliardi sui 520 che annualmente vanno dal centro alle periferie, costituisca la “spesa regionalizzata”, della quale cioè si sa a quali territori è destinata (ed è destinata, in quota maggiore, alle regioni a statuto speciale e al sud). Ma il resto? Dove finisce?

 

Malgrado le certezze furibonde dei pasdaran, sembra assai arduo, se non impossibile, valutare gli effetti della devolution. Tutta la materia è complicata, facilmente manipolabile e, proprio per questo, dovrebbe essere dipanata con visione politica. Garantendo libertà di iniziativa alle più efficienti regioni settentrionali, tutelando le meno efficienti regioni meridionali e approntando i meccanismi che inducano anche il sud a imboccare la strada della virtù amministrativa. Potrebbe essere l’occasione per ripensare l’intero sistema regionale, ivi compreso il regionalismo differenziato che già c’è, ovvero il ruolo dei territori a statuto speciale. Ma per fare questo bisognerebbe anzitutto sfrondare il dibattito dalla demagogia a buon mercato. E non è ciò che sta accadendo. Al contrario, di fronte alla giostra degli slogan, anche le cose più ovvie vengono negate, anche il senso comune diventa eretico. Nessuno che ricordi (neppure gli storici) le differenze antiche e attuali che spezzano il paese e ne fanno uno dei territori meno omogenei d’Europa. Nessuno che consideri l’elementare verità di un’Italia mal governata a Sud e ben governata a Nord, cioè quel gap di produttività su cui scrisse Robert Putnam ormai un quarto di secolo fa. Nessuno che metta sotto osservazione i fasti del Regno indipendente di Sicilia. Nessuno, oltre a Marco Demarco sul Corriere della sera e a Nicola Rossi sull’Huffington post, che riprenda la domanda banale/fatale di Tito Boeri: ma è vero o no che un insegnante a Reggio Calabria è borghesia e a Milano è lumpenproletariat? No, nessuna consapevolezza sembra salire dalle terre meridionali. Il sud si blinda per l’ennesima volta nei recinti linguistico-retorici che da sempre fanno mostra di proteggerlo (ma non si capisce da chi). Si butta nelle braccia di quanti si dicono disposti a rappresentarne gli umori agri, il M5s naturalmente, forse il “nuovo” Pd. Ma attenzione, ha scritto tempo fa Angelo Panebianco, se la corda viene tirata troppo, finisce che si spezza. Ai cantori sudisti dell’unità nazionale, alle schiere di intellettuali che combattono il regionalismo differenziato come fossero a Gettysburg, bisognerebbe ricordare le loro responsabilità. Cioè il rischio di allontanare sempre più il sud non solo dal nord, ma dal paese intero.

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